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Questo articolo è stato pubblicato il 23 giugno 2010 alle ore 09:25.
L'ultima modifica è del 23 giugno 2010 alle ore 09:55.
Per fortuna c'è. C'è un'Italia migliore di quella che immaginiamo e rappresentiamo in tv e sui giornali. Un'Italia che prova a mettere da parte demagogia e massimalismo cinico e cerca di scegliersi con realismo, certamente sofferto, un proprio futuro.
Magari non c'è stato il plebiscito che ci si poteva augurare, e che Fiat certamente auspicava, ma la vittoria dei sì nelle urne di Pomigliano d'Arco è comunque una prova di maturità di migliaia di operai che sanno leggere la realtà della produzione senza confini meglio di tanti commentatori.
E scelgono, pur con qualche ambiguità, quello che per loro oggi è il migliore dei mondi possibili. È ancora presto per dire se questo voto basterà a blindare davvero l'accordo, ma a quei lavoratori che hanno votato sì deve andare il giusto riconoscimento.
La loro non era una scelta scontata. Sbaglia chi pensa di poter minimizzare i sacrifici che sono stati chiesti ai lavoratori di Pomigliano. Non bisogna aver lavorato alla catena di montaggio per capire che un turno di sette ore e mezza, con tre sole pause da dieci minuti, non è una passeggiata. Così come è facile capire che assicurare recuperi di produttività per cause non determinate dal proprio lavoro o accettare regole più stringenti di altri sull'assenteismo è un segno evidente di responsabilità. Ma non c'è nulla, nell'accordo di Pomigliano, che viola – come pure è stato detto – la nostra civiltà del lavoro. Si può anche alzare il livello dello scontro (senza minacce, però) urlando il mancato rispetto di diritti fondamentali dei lavoratori ed evocando la violazione di principi costituzionali. Ma se poi un'ampia maggioranza di quei lavoratori sottoscrive l'intesa, bisogna saper fare autocritica. Non si vota in massa contro propri diritti fondamentali. E la tesi del ricatto non tiene.
Qui è la realtà che si impone. E la realtà non fa ricatti. Semplicemente esiste. Imponendo alle donne e agli uomini di buona volontà di tenerne conto.
Perciò la prima virtù di un sindacato deve essere quella del realismo. Lo insegna un leader della Cgil, che fu anche segretario della Fiom, quel Bruno Trentin che nel '92 firmò, dimettendosi successivamente, l'accordo sulla scomparsa della scala mobile per frenare la spirale inflazionistica: senza realismo non si sottoscrivono intese e, soprattutto, non si fanno gli interessi dei lavoratori.