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Mettete i diritti nei vostri cannoni

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Questo articolo è stato pubblicato il 23 giugno 2010 alle ore 08:18.
L'ultima modifica è del 23 giugno 2010 alle ore 09:49.

Si può coniugare l'arte con i diritti umani? Oggi a Roma, in Campidoglio, verranno celebrate queste nozze. L'occasione è un volume dedicato a Nelson Mandela, vent'anni dopo la sua liberazione: Universal Declaration of Human Right. Lo ha pubblicato la casa editrice di Marilena Ferrari (Gruppo Marilena Ferrari-Fmr), la stessa che ha ideato - per esempio - il libro d'arte su Canova, donato ai capi di stato durante l'ultimo G-8 a L'Aquila. In questo caso l'opera è impreziosita da inserti in cristallo di rocca e madreperla, e soprattutto da 40 tavole stampate in carta di cotone e disegnate da Marcello Jori.

Ma è ancora più prezioso il testo, che a sua volta riproduce i 30 articoli della Dichiarazione, sia in italiano sia in altre 30 lingue.
Ne parleranno politici e giuristi insieme a Louis Godart, consigliere di Napolitano per la conservazione del patrimonio artistico, che ha scritto la prefazione al libro. Ne parlerà la stessa Ferrari, cogliendo forse il destro per illustrare l'operato dei maestri artigiani, che nel terzo millennio rinnovano la tradizione delle botteghe rinascimentali. Ma dopotutto ogni intervento non può che approdare lì, nella Dichiarazione. Firmata a Parigi nel Palais de Chaillot il 10 dicembre 1948, si rivolse per la prima volta nella storia all'intera specie umana. Un progresso formidabile: nella democrazia ateniese i diritti non s'estendevano agli schiavi, nella democrazia forgiata dalle rivoluzioni di fine 700 non s'applicavano alle donne. C'è voluta una guerra - la più sanguinosa guerra che l'umanità abbia mai sperimentato - per vincere riserve e resistenze fra i popoli del mondo, per approvare senza nessun voto contrario (e con appena otto astensioni) il testo voluto dal presidente Truman, cui lavorò una commissione dove insieme a Eleanor Roosevelt sedevano il cinese Chang, il cileno Santa Cruz, il francese René Cassin, che nel 1968 ottenne il Nobel per la pace.

Ma adesso? La Dichiarazione non ha impedito nuove guerre, né arretramenti sul fronte dei diritti. Alcune sue parti sono state rese più cogenti attraverso i due Patti internazionali sui diritti civili e politici, nonché su quelli economici, sociali e culturali (l'Italia li ha ratificati nel 1977); la sua autorità morale ha generato (nel 1981) un testo gemello in lingua araba, la Dichiarazione islamica universale dei diritti dell'uomo. Però sta di fatto che ai quattro lati del pianeta si consumano ogni giorno esodi biblici e stermini di massa: per esempio in Congo, nel Darfur, a Gaza, nel Kirghizistan. Mentre il suo "braccio armato" - la Corte penale internazionale - non è riconosciuto dalle due superpotenze del XX secolo (Stati Uniti e Russia), né dalla più popolosa democrazia del mondo (l'India).

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Tags Correlati: Eleanor Roosevelt | G8 di Genova | Giustizia | Italia | Louis Godart | Marcello Jori | Marilena Ferrari | Nelson Mandela | René Cassin

 

Da qui due conclusioni. Primo: i diritti non basta declamarli, occorre farli camminare sulla terra. Vivono nella prassi, nell'esperienza quotidiana, non sul cielo delle Gazzette Ufficiali. E nessun diritto è mai per sempre, né sono eterne le Dichiarazioni dei diritti. Ogni generazione deve impadronirsene di nuovo, perché altrimenti rinsecchiscono come un vecchio tronco. Ma per appropriarsi di questo patrimonio i più giovani devono conoscerlo, e per conoscerlo serve chi sappia imbastire una narrazione dei diritti. Secondo un'indagine del 2003, appena un europeo su tre saprebbe da che parte cominciare per difendersi dalle discriminazioni sessuali, politiche, razziali, religiose. Colpa d'un diritto fin troppo complicato, tutto l'opposto del nitore con cui nel 1948 fu scritta la Dichiarazione. Ma colpa inoltre dei giuristi, della loro lingua popolata da arzigogoli, dei loro libri foderati con carta da fornaio. E allora ben vengano edizioni belle a guardarsi e pure a toccarsi: la bellezza salverà il mondo, diceva Dostoevskij.

Secondo: in Italia manca una politica del libro, e manca altresì un sostegno pubblico alla filantropia. Non che manchino libri e filantropi, ma si tratta d'esperienze singole, o meglio singolari. Negli Usa viceversa la beneficenza è un fenomeno di massa: coinvolge 84 milioni d'individui, che nel 2006 hanno donato una somma pari al 2% del Pil americano. Per quale ragione? Perché oltreoceano i benefattori ottengono sgravi fiscali e vari altri incentivi. Potremmo fare altrettanto qui, su quest'altra sponda dell'oceano. Magari cominciando da chi offre in dono la cultura dei diritti.
michele.ainis@uniroma3.it
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