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Questo articolo è stato pubblicato il 29 giugno 2010 alle ore 08:08.
PALERMO
Un patto politico con la mafia che è possibile far risalire al 1991, anno dei primi contatti tra l'oggi senatore dell'Udc Totò Cuffaro e l'oggi collaboratore di giustizia Angelo Siino che allora era il ministro dei Lavori pubblici di Cosa nostra e uomo di fiducia di Totò Riina. Un patto da cui deriverebbero tutti i successivi comportamenti di Totò Cuffaro, l'uomo politico siciliano che in questi ultimi vent'anni è stato tra le altre cose prima assessore regionale all'Agricoltura e poi presidente della Regione siciliana.
E da questa posizione di potere, secondo il racconto che ne fanno diversi pentiti (dallo stesso Siino, all'ex boss di Caccamo Nino Giuffré, a Francesco Campanella, ex presidente del Consiglio comunale di Villabate che procurò la carta d'identità per il viaggio a Marsiglia du zu Binnu e per ultimo anche la testimonianza di Massimo Ciancimino), Cuffaro sarebbe stato al servizio dei boss contribuendo al «sostegno e al rafforzamento dell'associazione mafiosa» con comportamenti e rapporti «che configurano il concorso e non solo il favoreggiamento». Avrebbe fatto ciò aiutando Michele Aiello, prestanome di Provenzano nella clinica Santa Teresa di Bagheria, oppure accogliendo le indicazioni politiche di Nino Mandalà, boss di Villabate, o ancora candidando uomini indicati dal capomafia di Bracaccio, il medico Giuseppe Guttadauro, come è avvenuto nel caso di Mimmo Miceli che su indicazione di Cuffaro è stato anche assessore al comune di Palermo, prima di essere arrestato e poi condannato per mafia.
Sono questi alcuni punti della requisitoria dei due pm Nino Di Matteo e Francesco Del Bene nel processo nei confronti di Salvatore Cuffaro, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa. Quelle di Cuffaro, sostengono i due magistrati, sono state «condotte troppo gravi, che non meritano attenuanti. I fatti di cui lo accusiamo sono veramente gravi anche per il suo ruolo di governatore regionale: per questa sua veste poteva partecipare in alcuni casi al Consiglio dei ministri». Ecco perché al termine della requistoria, durata cinque udienze, i magistrati hanno chiesto al gup Vittorio Anmania, che giudica con rito abbreviato, di condannare il senatore dell'Udc, già condannato in appello in altro procedimento (il processo Talpe) a sette anni per favoreggiamento aggravato dall'aver agevolato la mafia, a dieci anni di reclusione comprensivi dello sconto di pena previsto per chi sceglie il rito alternativo.