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Questo articolo è stato pubblicato il 02 luglio 2010 alle ore 08:46.
L'ultima modifica è del 02 luglio 2010 alle ore 08:09.
Berlusconi poteva rinviare a tempi migliori la legge sulle intercettazioni in accordo istituzionale con il Quirinale. Sarebbe stata una mossa saggia. Invece si è impuntato, come è noto, chiedendo alla maggioranza di presentare il testo alla Camera il 29 luglio, quando di solito ci si prepara alle vacanze. Lo ha fatto per ragioni politiche ormai chiare: riaffermare la sua leadership e magari «punire» Fini il temporeggiatore.
Risultato. Difficilmente il presidente del Consiglio otterrà quello che vuole: la legge non passerà, nonostante il tentativo di prova di forza, a meno di uno scontro con il Capo dello Stato che a questo punto sarebbe l'errore più grave da parte di un premier indebolito e forse logorato. La giornata di ieri sotto questo aspetto è illuminante.
A Malta Napolitano ha lasciato capire in modo inequivocabile che non intende firmare il testo su cui il governo insiste, a meno di sensibili modifiche. In sostanza, dovrebbe trattarsi di un'altra legge. Forse mai in passato il presidente della Repubblica era stato così categorico, e se vogliamo persino irrituale nel suo voler entrare nel merito o quasi di ciò che il Parlamento è chiamato a discutere.
Ma se Napolitano ha deciso di agire in questi termini, vuol dire che ritiene la situazione molto deteriorata. Lo si era capito già nei giorni scorsi con il caso Brancher, quando l'irritazione del Quirinale è apparsa evidente. Ora la decisione dei capigruppo di Montecitorio di procedere senz'altro con le intercettazioni, nonostante l'opera di «persuasione morale» svolta dal presidente, ha fatto traboccare il vaso.
E non basta, perché sempre ieri il presidente della Camera è tornato a usare toni aspri verso la gestione berlusconiana del governo. Si è trattato di un conflitto davvero inusuale con un esponente della maggioranza (il ministro Bondi), nel corso del quale è emerso tutto il malessere che agita il Pdl: le intercettazioni, naturalmente, e poi la legalità, i rapporti con la Lega, l'affare Cosentino, la legge elettorale. E infine la questione Brancher, «perché non si può ammettere il sospetto che un ministro sia stato nominato al solo scopo di evitargli il tribunale».