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Rigore equo per la filiera del farmaco

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Questo articolo è stato pubblicato il 04 luglio 2010 alle ore 08:01.

di Sergio Dompé
La manovra in discussione chiede, così come accade in molti Stati europei, sacrifici e rigore all'intero paese e – ancora una volta – all'industria farmaceutica, già colpita negli ultimi anni da tagli alla spesa e riduzioni dei prezzi. Le imprese del farmaco, assolutamente consapevoli della difficoltà estrema del momento, sono pronte a contribuire responsabilmente al riequilibrio della finanza pubblica.
Eppure sembra che rigore e sacrifici, accettati da molti, qualcuno possa evitarli addirittura per legge. È quanto accade ora con diversi emendamenti alla manovra che prevedono l'aumento del margine al farmacista dal 26,70% al 30,35% del prezzo di vendita al pubblico. Aumento che verrebbe incredibilmente caricato, in gran parte, sulla farmaceutica: un'industria di qualità che ha i prezzi più bassi del 20% rispetto al resto d'Europa – come dimostra una recentissima indagine del Cergas Bocconi – e che registra segnali chiari e forti di criticità. Quali la pressione sulla redditività, il rallentamento degli investimenti – passati da una crescita annua del 6% ad una dell'1,3% – e l'inversione del saldo estero dei medicinali che, dopo un decennio in attivo, è ora in passivo per 720 milioni. Un trend purtroppo confermato anche nel primo trimestre 2010. Un settore fondamentale dell'economia della conoscenza che conta 67.500 addetti (per il 90% laureati o diplomati), 6.150 addetti alla ricerca e sviluppo, il 54% della produzione verso l'export e 2,3 miliardi di euro di investimenti all'anno. E che quindi dovrebbe essere incentivato e non colpito con oneri aggiuntivi che spetterebbero ad altre parti della filiera.
Ma come si è arrivati alla situazione paradossale dell'aumento per legge del margine ai farmacisti? La normativa, prima della manovra economica, prevedeva che il sistema di remunerazione della filiera del farmaco distribuisse il prezzo di vendita al pubblico (al netto dell'Iva) nella maniera seguente: 66,65% all'industria, 6,65% al grossista e 26,70% alla farmacia. In realtà la distribuzione finale, ossia le farmacie, otteneva da quella intermedia, i grossisti, uno "sconto" di circa il 3,65%, portando appunto la propria quota effettiva al 30,35 per cento.

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Tags Correlati: Assistenza medica | Farmindustria | Sergio Dompé

 

Per eliminare una situazione in contrasto con la legge, il governo aveva previsto che il 3,65% venisse corrisposto dalle farmacie allo stato, in maniera da contribuire alla riduzione della spesa pubblica, recuperando lo "sconto" praticato all'interno della distribuzione. Un'impostazione che si inseriva in un dialogo aperto dalle istituzioni con le farmacie, alle quali veniva contemporaneamente riconosciuta la possibilità di avere un ruolo attivo e rilevante, come presidio per la medicina sul territorio con nuovi servizi remunerati.
Gli emendamenti presentati, se approvati, sarebbero doppiamente iniqui. In primo luogo perché il margine dell'industria in Italia è il più basso fra i principali paesi europei. E non si capisce la ragione per la quale dovrebbe essere ulteriormente ridotto come conseguenza di meccanismi tutti interni alla distribuzione. E poi perché l'industria farmaceutica è già chiamata a contribuire significativamente con i 600 milioni di risparmi sui medicinali equivalenti, oltre che con gli oneri derivanti dallo spostamento di altri 600 milioni di euro di farmaci dall'ospedale al territorio.
Una misura, quest'ultima, che determina un vantaggio cospicuo per le farmacie che si troveranno ora a distribuirli. Se andasse così, non solo non avrebbero contribuito, ma addirittura guadagnato.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
L'autore è presidente di Farmindustria

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