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Accordo con Pechino, Google resta

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Questo articolo è stato pubblicato il 10 luglio 2010 alle ore 08:03.

SHANGHAI - Google torna a trasmettere "in chiaro" oltre la Grande Muraglia. Ieri, il governo cinese ha dato via libera alla ripresa delle operazioni del colosso internet americano, interrotte quattro mesi fa dopo che Google aveva volontariamente ridiretto il proprio traffico sul suo sito in lingua cinese di Hong Kong per non sottostare più alla censura di Pechino. «Le autorità cinesi hanno deciso di rinnovare la nostra licenza. Siamo molto soddisfatti e siamo pronti a continuare a servire con il nostro motore di ricerca gli utenti cinesi», ha annunciato trionfalmente in serata un portavoce di Google.

Cos'ha sbloccato, proprio alla vigilia della scadenza delle concessioni delle licenze cinesi Internet Content Provider di Google, una crisi che sembrava ormai irrimediabilmente destinata a risolversi in un divorzio definitivo tra l'azienda Usa e il Dragone? Un compromesso raggiunto in extremis tra Mountain View e Pechino, rispondono gli addetti ai lavori. Quali siano i termini di questo compromesso, però, resta un mistero. Che ieri né Google né le autorità cinesi hanno voluto chiarire.

La diatriba tra Google e Pechino era scoppiata all'improvviso ai primi di gennaio, quando la società Usa decise di denunciare una serie di attacchi informatici contro le caselle di posta elettronica di numerosi suoi clienti cinesi. Tra questi figuravano anche alcuni dissidenti politici. Irritata per l'incidente, attribuito esplicitamente a misteriosi hacker professionali, Google lanciò un provocatorio aut aut a Pechino: o mi lasci rimuovere i filtri imposti dalla censura al mio sito (che sono gli stessi applicati di default anche a tutti gli altri website che operano nel paese), o me ne vado dalla Cina.

Il governo cinese, per il quale il controllo dell'informazione è una prerogativa irrinunciabile, non venne ovviamente a patti con Google. Così per tutta risposta, dopo qualche settimana di braccio di ferro, il motore di ricerca americano chiuse le operazioni in Cina e dirottò il traffico cinese sul suo portale di Hong Kong.

Nella sostanza, da allora per gli utenti cinesi non è cambiato nulla. Questi ultimi, infatti, in questi ultimi quattro mesi hanno continuato a potere accedere al portale e a consultarne i contenuti. E hanno continuato a non poter consultare i siti censurati da Pechino perché ritenuti politicamente sensibili (tra questi figurano anche Facebook e Youtube), giacché l'onere del "filtro" sui contenuti è passato da Google ai cerberi dell'informazione cinesi.

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Tuttavia, il trasferimento sulla base libera di Hong Kong (dall'ex colonia britannica il portale Usa è pienamente accessibile senza alcuna restrizione) ha indebolito notevolmente la posizione di Google sul mercato cinese. Se da un lato, infatti, la manovra di aggiramento ha consentito a Mountain View di continuare a raggiungere gli internauti cinesi, dall'altro ha messo profondamente in crisi il suo modello di business. Per una ragione molto semplice: dato che opera fuori dal paese tramite un dominio straniero, Pechino potrebbe decidere di oscurare in qualsiasi momento il website, proprio come ha fatto in passato con Facebook e Youtube accampando scuse pretestuose. Con questa spada di Damocle sulla testa, ovviamente, raccogliere pubblicità e trovare nuovi inserzionisti diventerebbe a lungo andare un'operazione quasi impossibile.

In questo quadro, la cosa più probabile (per non dire sicura) è che per raggiungere il compromesso con il governo cinese Google abbia deciso di fare un passo indietro rispetto alle sue posizioni oltranziste dello scorso inverno. «La Cina incoraggia lo sviluppo di internet, ma le società straniere che operano nel nostro paese devono rispettare le nostre leggi», aveva precisato qualche giorno fa Pechino, lanciando l'ennesimo messaggio in codice a Google. Che si è comportata di conseguenza, decidendo di venire a patti sullo spinoso nodo della censura.

D'altronde, il business è business e piegare la testa di fronte a Pechino consentirà a Mountain View di tornare alla piena operatività sul più grande e promettente mercato internet del pianeta composto da 384 milioni di utenti, 3,7 milioni di website e oltre 180 milioni di blog.

Un mercato sul quale, dopo quasi dieci anni di attività, Google si è ritagliata una presenza forse inferiore alle attese iniziali, ma comunque consistente. Oggi il portale americano controlla circa il 31% del mercato cinese dei motori di ricerca (pari a un giro d'affari annuo di circa 200 milioni di dollari), che si confronta con il 64% del gigante domestico Baidu, mentre la quota residua se la dividono Yahoo China e altri tre o quattro portali cinesi.
ganawar@gmail.com

DIECI ANNI DI SCHERMAGLIE
Primi contatti nel 2000

Dieci anni fa la Cina permette a Google di elaborare un motore di ricerca in mandarino in modo che i siti web cinesi non siano esclusi dalla più grande piazza di internet del mondo
L'accordo del 2006
La società americana introduce Google.cn, una pagina di ricerca con sede in Cina che, seguendo le regole cinesi, censura i risultati delle ricerche. Google parla di compromesso che serve a dare un contributo allo sviluppo cinese ed evitare le restrittive leggi sulla censura
Le prime schermaglie nel 2009
Nel marzo 2009 la Cina blocca l'accesso ai video di YouTube. Tre mesi dopo le autorità cinesi accusano Google di diffondere contenuti osceni su internet
La battaglia di quest'anno
A gennaio Google annuncia che non sopporterà a lungo la censura e potrebbe lasciare il paese. La società rinvia il lancio dei due cellulari Android in Cina
L'offensiva degli hacker
Un mese dopo il New York Times riporta la notizia di attacchi hacker a Google partiti da due università cinesi che negano qualsiasi coinvolgimento
Trasloco a Hong Kong
Il 22 marzo Google sposta il principale portale in lingua cinese, reindirizzando le ricerche degli utenti cinesi al sito di Hong Kong evitando la censura, almeno sui risultati della ricerca
La lista di giugno
Il 30 giugno la Cina diffonde una lista preliminare di compagnie a cui è concessa la licenza. Manca Google che stoppa il reindirizzamento degli utenti cinesi al sito senza censura di Hong Kong

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