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Consigli a Obama (via Bruxelles)

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Questo articolo è stato pubblicato il 11 luglio 2010 alle ore 14:37.

Mi rendo conto che il nostro paese non è fra i grandi del mondo e che, quando ci sono di mezzo gli Stati Uniti, ciò che più ci interessa è se ci stimano e se parlano volentieri con i nostri leader. E tuttavia ho trovato un po' umiliante che l'attenzione sul presidente Obama si concentrasse questa settimana in Italia su una sua breve intervista giornalistica tutta in questa chiave, mentre ferve a Washington e sulla stampa americana un dibattito acceso sulla politica estera dello stesso Obama e sui nodi di essa in cui rischia di restare impigliato.


Si fanno da noi analisi sofisticatissime sulla assenza di visione che segnerebbe ormai larga parte della nostra politica nazionale. Non credo vi sia ragione di dire la stessa cosa per l'attuale amministrazione di Washington, ma di sicuro anch'essa ha bisogno, quanto meno in politica estera, di trovare una visione comune e di lavorare sul filo che lega i diversi fronti su cui è impegnata. Siamo capaci di darle una mano su questo, senza contentarci della pacca sulle spalle con cui ogni tanto ci gratifica, mentre magari le riserve di merito che abbiamo

Con Washington siamo direttamente e pericolosamente impegnati in Afghanistan. Condividemmo a suo tempo le ragioni per esserci attraverso la Nato, condividiamo oggi le finalità della missione ma condividiamo anche la forte aspettativa che con il 2011 si trovi una "soluzione politica" e conseguentemente si avvii il ritiro. Come tutti coloro che sono o sono stati in Afghanistan, sappiamo tuttavia benissimo in che cosa può consistere la soluzione politica e che cosa la rende difficile. Poiché il governo Karzai e coloro che oggi lo sostengono non sarebbero mai in grado di controllare il paese, sarà necessario includere i talebani non irriducibili (come li chiama il generale Petreus) nel patto di governo. Questo avrebbe il sostegno interno dei Pashtun (circa il 42% della popolazione afghana) e quello esterno del Pakistan e dell'Arabia Saudita, ma provocherebbe la forte ostilità interna dei Tajiki, degli Uzbeki e degli Hazara (circa il 45% della popolazione afghana) e quella esterna dell'Iran.
C'è chi sostiene che in questa situazione non c'è via d'uscita, tanto più che gli americani, per coprirsi su tutti i fianchi, da una parte pongono condizioni molto alte sul terreno dei diritti umani, dall'altra sono molto aggressivi sul piano militare per aumentare la pressione. E alla fine tutti i talebani, irriducibili o meno che siano, potrebbero rimanere contro. C'è invece chi sostiene che una via di uscita ci può essere, ma allora va negoziata con l'Iran, in modo da dargli almeno la garanzia che l'Afghanistan non rimarrà sotto l'influenza preponderante dei pakistani e dei sauditi.

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Tags Correlati: Afghanistan | Emirati Arabi | Iran | Israele | Italia | Karzai | Leslie Gelb | Ministero degli affari Esteri | Nato | Obama | Pashtun | Politica | Pubblica Amministrazione | Stati Uniti d'America | Yousef Al-Otaiba

 

In sé non è un negoziato impossibile, ma esso stesso può approdare a un risultato se i rapporti fra Stati Uniti e Iran divengono tali da consentirlo. E oggi, tra sanzioni da una parte e reazioni provocatorie dall'altra, il clima è esattamente l'opposto. Sono in grado gli Stati Uniti di mutarlo? Giorni fa l'ambasciatore degli Emirati Arabi a Washington, Yousef Al-Otaiba, ha destato vivaci commenti per quanto ha detto ad Aspen sulla preoccupazione di tutto il mondo arabo davanti alla prospettiva di un Iran nucleare, una preoccupazione - ha spiegato - molto più motivata di quella di chi è a settemila miglia di distanza con due oceani che gli coprono i fianchi.
Prevedibilmente il ministero degli Esteri di Abu Dhabi ha subito gettato acqua sul fuoco, ribadendo che nessuno intende interferire con gli affari interni di altri stati sovrani. Ma l'episodio è rivelatore. L'Iran sarebbe isolato nella regione, e finirebbe per ciò stesso per essere spinto verso atteggiamenti più flessibili, se gli stati arabi non si sentissero oggi costretti a fare buon viso a cattiva sorte e addirittura a fare causa comune con Teheran. Ma a che cosa si deve questa costrizione? A una sola e dominante ragione, la ferita sempre aperta della questione israelo-palestinese. Il filo rosso che lega all'Iran la soluzione del problema afghano arriva così a legare a Israele la soluzione del problema iraniano.
Secondo Leslie Gelb, di cui io continuo a raccomandare la lettura nel Daily Beast Post nonostante la durezza con cui a volte si esprime, i rapporti con Israele sono quelli su cui Obama ha manifestato le maggiori e meno proficue incertezze. Da ultimo, prima ha rifiutato di ricevere Netanyahu quando già era in viaggio e ha umiliato così non solo lui ma l'intera Israele, con l'effetto di raggelare critiche interne al primo ministro tutt'altro che inutili. Poi, quando lo ha ricevuto giorni fa, ha addirittura adottato – dice Gelb – il linguaggio israeliano su tutte le questioni. Davvero ha favorito così la ripresa dei negoziati diretti con i palestinesi?
In realtà – conclude Gelb criticando così non solo Obama, ma anche i suoi predecessori – nessuno aiuterà le parti a trovare una soluzione al tavolo dei negoziati, se si limiterà a indicare loro i compromessi da raggiungere attorno a esso. Bisogna costruire le condizioni della pace al di là di quel tavolo, come seppero fare i britannici con i cattolici e i protestanti irlandesi, promuovendo nelle due comunità gruppi a favore della pace, in modo che il prodotto naturale del negoziato, e cioè il compromesso, non incontrasse soltanto ostilità, ma poggiasse su un sufficiente consenso.
Io non so se questo è un suggerimento effettivamente praticabile e non so neppure se precedenti presidenti americani abbiano cercato di praticarlo senza successo. Esso segnala tuttavia un bisogno, che in un modo o nell'altro va soddisfatto, quello cioè di non chiudere le vicende in cui si è impegnati entro i confini che delimitano la zona più critica dei loro svolgimenti. La soluzione infatti può venire da connessioni e interazioni con fattori esterni, sui quali è non meno importante lavorare. Quando si parla di visione politica, e se ne lamenta l'insufficienza o la mancanza, a questo ci si riferisce. E quando si parla di visione "geopolitica" ci si riferisce alla capacità di saper cogliere fili rossi, come quello di cui abbiamo cercato qui di seguire il percorso.
Si dirà: tutto questo può anche essere vero ed è dunque bene che chi può spinga il presidente degli Stati Uniti a seguire il filo rosso e a non trattare le singole vicende - l'Afghanistan, l'Iran, Israele - come se esso non ci fosse. Ma può farlo l'Italia, non rischia, se lo fa, di pretendere troppo e di essere guardata con sufficienza? Realisticamente è così e di sicuro saremmo ridicoli se volessimo fare dell'Italia la mosca cocchiera dell'Occidente. Ma - e scusate la mia eterna ripetizione - qui non c'è solo l'Italia, c'è l'Unione europea nella quale l'Italia può dare con autorevolezza il suo contributo. E l'Unione europea ben potrebbe far valere - parlando da pari con gli Stati Uniti - una visione geopolitica utile a entrambi.
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