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Questo articolo è stato pubblicato il 17 luglio 2010 alle ore 08:02.
È come se in Italia corresse voce che l'Eni stia per fallire. Abbastanza per mandare in corto circuito i palazzi del potere. O che negli Stati Uniti la Exxon Mobil sia sull'orlo della bancarotta. O la Microsoft a un passo dall'essere marchiata con il Chapter 11. Quello che sta avvenendo in Nigeria potrebbe essere perfino peggio. In un paese da tempo malato cronico di "petrodipendenza", se la compagnia petrolifera nazionale (Nnpc) dovesse davvero imboccare la strada dell'insolvenza, allora sarebbero guai. Per tutti. Perché tolta la Nnpc, nell'economia del più popoloso paese africano (150 milioni di abitanti) c'è poco, o nulla. Bastano due dati nell'ultimo rapporto del dipartimento americano dell'Energia, per avere un'idea di come vanno le cose: in Nigeria il 95% dell'export in valore arriva proprio dalle vendite di petrolio e gas. Quanto alla Nnpc, fornisce il 65% delle entrate del governo federale.
Il caso Nnpc, accusata di insolvenza, ha quindi provocato un terremoto. Il primo a prendere la parola è stato Remi Babalola, il ministro alle Finanze: «La Nigerian National Petroleum Corporation - ha dichiarato martedì scorso - è insolvente perché gli attuali asset non coprono i debiti pari a 754 miliardi di naira (5 miliardi di dollari, ndr) al 31 dicembre 2008». Già in giugno il Federation account allocation committee (Faac), che gestisce la distribuzione delle rendite petrolifere ai tre livelli del Governo, aveva scritto alla Nnpc che doveva rimborsare, immediatamente, 450 miliardi di naira che doveva allo Stato. Poche ore dopo l'annuncio shock di Babalola, è arrivata la risposta della compagnia: «Contrariamente a una dichiarazione secondo cui la Nnpc è insolvente, la direzione della compagnia ha presentato importanti elementi che dimostrano il contrario». La Nnpc ha poi contrattaccato sostenendo che è il governo a esserle debitore, precisamente per rimborsi pari a 6,7 miliardi di dollari in benzina sussidiata. Carburante comprato a prezzi di mercato all'estero dalla Nnpc.
In un clima rovente è intervenuto il ministro delle Finanze, Segun Aganga negando che ci sia insolvenza. «Abbiamo diverse transazioni tra la Nnpc e il governo federale. Alcune in credito, altre in debito». La matassa è ingarbugliata. Anche perché l'azionista quasi assoluto della Nnpc, che controlla quasi tutti gli asset petroliferi nigeriani, è proprio lo Stato. Ed è sempre lo Stato a rivendicare il debito della Nnpc. Difficile pensare a una bancarotta di una compagnia che ha joint ventur miliardarie con alcune delle più grandi major energetiche mondiali. Come la Shell, la Chevron, o l'italiana Eni. Resta il fatto che il partito di chi invoca uno smembramento della compagnia, accusato diverse volte di gravi casi di corruzione, ha ripreso forza. C'è chi, invece, preferisce puntare il dito sulla dissennata politica dei sussidi, di cui il caso Nnpc sarebbe un effetto collaterale. Suona come un paradosso: la Nigeria è l'ottavo esportatore di greggio al mondo e il primo africano. Inoltre possiede le maggiori riserve di gas del continente. Eppure importa quasi tutta la benzina che consuma. Come altri paesi dell'Opec. Anche potenze petrolifere del calibro di Iraq e Iran si trovano sulla stessa barca. La politica del carburante a prezzi sussidiati si è trasformata in un insostenibile fardello sui loro conti pubblici (la Nigeria spende oltre quattro miliardi di dollari l'anno). E ora stanno facendo il possibile per ridurli.