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Questo articolo è stato pubblicato il 20 luglio 2010 alle ore 08:04.
Una valanga di firme in Cassazione per chiedere che l'acqua resti un bene comune e non venga affidata al libero mercato. Il comitato referendum acqua pubblica ha consegnato ieri 525 scatoloni con oltre un milione e 400mila firme in favore di ciascuno dei tre quesiti abrogativi delle norme che consentono la privatizzazione dell'acqua.
Nessun referendum nella storia della Repubblica, ha sottolineato il Comitato promotore, ha raccolto tante firme. Anche se il riferimento al referendum sul divorzio è fatto alle firme autenticate dalla Cassazione (1.370.000) e non a quelle presentate. In testa nella raccolta delle firme la Lombardia (236.278 moduli compilati), seguita dal Lazio (146.450). Variegata la composizione del comitato promotore, costituito da tante associazioni e comitati di sinistra, cattolici o apolitici, organizzazioni non governative e realtà della società civile.
Slogan della campagna referendaria: «L'acqua non si vende». L'acqua, sostengono i referendari, è un bene essenziale che appartiene a tutti: nessuno può appropriarsene, né farci profitti. «Sintetizzando i 3 quesiti – spiega Paolo Carsetti del Comitato promotore – si potrebbe dire "fuori l'acqua dal mercato, fuori i profitti dall'acqua». Si chiede l'abrogazione dell'articolo 23-bis della legge 133/2008, che colloca tutti i servizi pubblici essenziali locali sul mercato, compresa la gestione dell'acqua pubblica in Italia; dell'articolo 150 del Codice dell'ambiente relativo alla scelta della forma di gestione e alle procedure di affidamento; del comma 1 dell'articolo 154 che prevede che la tariffa costituisce corrispettivo del servizio pubblico integrato ed è determinata rendendo conto di una adeguata remunerazione del capitale investito. Il combinato disposto dei tre quesiti comporterebbe, per l'affidamento del servizio idrico integrato, la possibilità del ricorso a enti di diritto pubblico (azienda speciale, azienda speciale consortile, consorzio fra i Comuni), o a forme societarie che qualificherebbero il servizio idrico come strutturalmente e funzionalmente "privo di rilevanza economica", di interesse generale e scevro da profitti nella sua erogazione.