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Commenti e Inchieste

L'auto senza mercato è ruggine

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Questo articolo è stato pubblicato il 25 luglio 2010 alle ore 14:30.
L'ultima modifica è del 25 luglio 2010 alle ore 08:09.

È difficile assegnare torti e ragioni nella querelle seguita alla scelta Fiat di produrre auto in Serbia, se ci lasciamo ipnotizzare dalle gesta dei protagonisti. Sergio Marchionne dichiara che per la sua azienda è naturale lavorare dove migliori sono le condizioni. Tutta la politica italiana, per una volta unita con armonia che ameremmo vedere su altri temi, si schiera ai cancelli di Mirafiori, come il Berlinguer di una volta.

I commentatori analizzano, si dividono, esagerano, c'è chi perfino lega la vicenda alla guerra dei Balcani, come se Clinton e D'Alema, leader del blitz che fermò il tentato genocidio di Milosevic, avessero voluto lucrare sull'auto.
La confusione oscura la posta in gioco a Torino. È certo interesse nazionale mantenere una forte presenza dell'auto in Italia, e nella sua storica sede sotto la Mole. Nessuna persona di buon senso vedrebbe la fine della "I" di Fiat come una buona notizia. Ma l'esito positivo non è - questo il punto di partenza che troppi nascondono - legato alla volontà di Marchionne, della famiglia Agnelli, alla trattativa del sindacato, raziocinante o estremista, alla pressoché irrisoria capacità di mediazione della politica, mai come in questi casi ridotta a comparsa, bene intenzionata al meglio, petulante al peggio.
La questione è: Fiat, chiunque la guidi, come qualunque altra fabbrica, chiunque la guidi, produrrà o no in Italia se, e solo se, le condizioni di mercato lo consentiranno. Anche se Marchionne decidesse "Mirafiori non si tocca", se il governo stanziasse i più pingui sussidi (stroncati presto dall'Europa), se si installassero al Lingotto i soviet più tosti della Fiom, (come ai tempi dell'Officina Sussidiaria Ricambi Osr, reparto ghetto per i comunisti alla Emilio Pugno, ribattezzata Officina Stella Rossa) il risultato non muterebbe.

Presto la competizione globale "automotive" condannerebbe alla resa lo storico stabilimento di Torino. Ricordo negli anni 80 il buio del turno dell'alba nella Rust Belt americana, la cintura della ruggine, operai metalmeccanici e siderurgici fieri di essere Middle Class con i loro 27 dollari l'ora di salario, presto battuti dalla competizione cinese a 16 centesimi di dollari l'ora. I giapponesi approfittarono della felice politica fiscale, di relazioni industriali positive, di collaborazione tra università e laboratori, e produssero automobili negli stati Usa del Sud. Chi seppe innovare e adattarsi al mondo nuovo prosperò. Chi si rifugiò nel passato e nell'invettiva fu divorato dalla ruggine.

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Tags Correlati: Agnelli | Emilio | Fiat | General Motors | John Elkann | Officina Sussidiaria Ricambi Osr | Piemonte | Rust Belt | Sergio Chiamparino | Sergio Marchionne | Stati Uniti d'America | Trasporti e viabilità | Volkswagen

 


Fa bene il sindaco di Torino Sergio Chiamparino, lasciato solo dal Partito democratico, a chiedere a tutti, governo, azienda e sindacato, responsabilità e maturità. Oggi in Piemonte non c'è solo Fiat-Chrysler. C'è la General Motors con i diesel di nuova generazione al Politecnico del rettore Profumo. C'è la Volkswagen con Giugiaro. C'è Pininfarina. Un polo e una cultura da non disperdere, ma che vanno resi competitivi. Per far sì che Fiat resti a Torino non bisogna convincere Marchionne o John Elkann. Bisogna creare le condizioni concrete perché le fabbriche restino, altre arrivino, nuove produzioni partano.


Difendere "i diritti" di Mirafiori fa fare buona figura nei talk show, ma non salva un posto solo di metalmeccanico. Al governo Berlusconi non basta "mediare" al solito, precario, tavolo d'estate. Deve garantire all'azienda un percorso virtuoso verso il successo: innovazione, ricerca, mobilità sostenibile, motori verdi. E ai lavoratori la rete che li accompagni nelle difficoltà.
Quando abbiamo sostenuto l'accordo di Pomigliano, e lamentato il clima di ostilità preconcetta che si era creato intorno al progetto di Fabbrica Italia, anticipavamo solo quel che è poi seguito, inevitabilmente. La diffidenza eccessiva seguita al referendum ha rallentato l'idea di investire nel nostro paese e riaperto le strade dell'estero. Non è una ritorsione di Marchionne - cui pure vanno raccomandate in questa ora saggezza e prudenza, per respingere la tentazione rischiosa di isolarsi e procedere da solo. È un calcolo costi-benefici che chiunque poteva far da sé. Lamentare il "ritorno a Valletta" è, di nuovo, efficace come slogan, del tutto inane come analisi e capacità di proposta. La "responsabilità sociale dell'azienda", le eterne lamentele dei tardo-olivettiani, non c'entrano nulla: perché mai dovrebbe essere meno "etico" dare lavoro a un serbo che a un italiano o un brasiliano? Quando un'azienda, a fine d'anno, conta i suoi lavoratori, può sentirsi "responsabile" a prescindere da che passaporto abbiano in tasca.


Noi italiani abbiamo il dovere di difendere la nostra comunità, il suo benessere, la sua capacità di creare ricchezza e cultura, il suo lavoro, consacrato dalla Costituzione nella prima riga. Il lavoro "italiano" però si difende, e la Costituzione si celebra, non dichiarando superbi «Mirafiori non si tocca!», o cercando trame oscure che da Milosevic arrivino alle utilitarie. Mirafiori, e tutte le Mirafiori del paese, si difendono se le aziende che già operano avranno il modo per radicarsi senza ostacoli, e dall'estero arriveranno altri marchi e altri investimenti. Se "fare" il made in Italy sarà una via crucis, a rischio non è solo Mirafiori, ma tutta l'industria italiana di manifattura che pure, scrive Martin Wolf sul Financial Times, «fa invidia a inglesi e americani».

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