Questo articolo è stato pubblicato il 28 luglio 2010 alle ore 09:28.
NEW YORK.- L'opinionista liberal Joe Klein e il dittatore cubano Fidel Castro hanno poco in comune. Così come il settimanale neoconservatore Weekly Standard e la rivista online giapponese The Diplomat. Poca affinità anche tra le pagine del Wall Street Journal e quelle del quotidiano saudita Asharq Al-Awsat. Stessa cosa tra il mensile filo israeliano Commentary e l'American Interest di stretta scuola realista diretto da Francis Fukuyama.
Eppure tutti quanti, da diverse e spesso opposte prospettive, in questi giorni di mezza estate scrivono che nell'aria c'è qualcosa di poco rassicurante riguardo ai rapporti con l'Iran. Le notizie di cronaca, sui grandi giornali d'informazione, raccontano di schermaglie diplomatiche fra Iran e Stati Uniti, con accuse reciproche e spesso surreali di spionaggio e controspionaggio, ma anche dei primi effetti concreti della nuova tornata di sanzioni economiche - non solo Onu, ma anche quelle insolitamente dure appena approvate dall'Unione europea e soprattutto quelle americane passate all'unanimità al Senato di Washington e con soli otto voti contrari alla Camera. C'è chi dice che l'embargo economico non serve, ma c'è anche chi assicura che in Iran cominci a farsi sentire. Ma non è la cronaca, in questo caso, a fare notizia. C'è altro. Uno scenario più inquietante. Il liberal Klein, su Time, scrive che «un attacco all'Iran è tornato di nuovo all'ordine del giorno». L'anziano e malato Castro, alla televisione cubana, ha detto con un filo di voce che «gli Stati Uniti hanno aumentato la probabilità di una guerra nucleare in Iran e nella penisola coreana». La copertina del Weekly Standard chiede se «Israele deve bombardare l'Iran». Bret Stephens, sul Wall Street Journal, domanda «come mai Israele non ha ancora bombardato l'Iran?», con sottolineatura sull'avverbio di tempo. Su The Diplomat, rivista di studi sull'area Asia-Pacifico, Barry Rubin suggerisce di non attaccare l'Iran, ma aggiunge "adesso". Commentary pubblica una lunga analisi dal titolo pessimista: «L'Iran non può essere contenuto», sotto inteso - ma mica tanto - «con la diplomazia». Il titolo dell'intervento di Walter Russell Mead sul sito di National Interest spiega in modo dotto che «le profonde convinzioni di Obama porteranno a una guerra con l'Iran».
Si aggiungano le dichiarazioni del generale Ray Odierno, il capo delle forze armate americane in Iraq, che ha ribadito ancora una volta che gli iraniani addestrano le milizie sciite irachene ad attaccare le truppe di Obama. Poi quelle dell'ex capo della Cia, Michael Hayden, che domenica in tv ha detto che ai tempi di Bush l'attacco militare non era una priorità, mentre adesso «sembra inesorabile». Infine l'annuncio del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad di ampie manovre militari a partire dal 31 luglio per preparare il paese a un possibile attacco occidentale, mitigato da una nuova disponibilità a riprendere la trattativa con l'Agenzia atomica Onu. Preoccupano anche le dichiarazioni dell'ambasciatore degli Emirati Arabi Uniti a Washington, Yousef al-Otaiba. A una platea di giornalisti ed esperti internazionali ha detto che i benefici di un bombardamento americano o israeliano contro le strutture nucleari iraniane sarebbero maggiori rispetto ai costi negativi di breve periodo che un attacco causerebbe. Gli ayatollah atomici, ha aggiunto il rappresentante degli Emirati, fanno paura, sono una minaccia seria, vanno fermati. Anche con l'uso della forza.
Abdul Rahman Al-Rashid, editorialista di Asharq Al-Awsat, il giornale di proprietà della famiglia reale saudita, ha commentato favorevolmente le parole dell'ambasciatore degli Emirati, specificando che l'Iran atomico «è la minaccia più pericolosa che la regione abbia avuto negli ultimi cento anni». L'Iran dotato dell'arma nucleare, secondo l'opinionista saudita, non avrà interesse ad attaccare Israele né la forza di colpire l'America, perché sarebbe raso al suolo dalla rappresaglia, ma «cercherà sicuramente di dominare i paesi del Golfo, forse di occuparne qualcuno, ben sapendo che nessuna grande potenza avrà il coraggio di interferire con chi è protetto da un'arma nucleare». Sono gli arabi, quindi, i primi a essere preoccupati della possibile svolta nucleare iraniana. Nel weekend i giornali israeliani hanno scritto che l'attuale capo del Mossad, Meir Dagan, è andato in Arabia Saudita probabilmente a discutere di un attacco militare israeliano in Iran, visto che i bombardieri israeliani per raggiungere l'Iran dovrebbero sorvolare i cieli iracheni o sauditi. In queste ore il ministro della Difesa israeliano Ehud Barak è a Washington per incontri al Pentagono e alla Casa Bianca.
Gli israeliani, di destra e di sinistra, non hanno mai smesso un attimo di essere preoccupati. Ma è la Casa Bianca di Obama ad aver cambiato atteggiamento. L'opzione militare non è mai stata esclusa a priori. Nessun presidente americano può escluderla, nemmeno il Nobel per la Pace. L'approccio al dossier Iran però era diverso da quello del predecessore. Bush non aveva una politica ben definita, anzi era piuttosto contraddittoria. Aveva inserito l'Iran nell'elenco dell'asse del male, aveva finanziato l'opposizione democratica e posto l'obiettivo del cambio di regime. Retorica, qualche soldo e poco altro. Tanto più che, nella seconda parte del secondo mandato, ha avviato i colloqui con gli ayatollah, prima segreti a Ginevra, poi pubblici con l'inviato William Burns nel 2008. L'Iran ha continuato la sua corsa al nucleare, nonostante due giri di sanzioni economiche approvate all'unanimità dal Consiglio di sicurezza Onu. Obama ha cambiato radicalmente l'approccio, credendo fermamente in quella che forse è stata l'unica vera e grande svolta di politica estera e di sicurezza nazionale rispetto al passato. Il presidente ha offerto reiteratamente la mano tesa a Teheran. Credeva sul serio che la politica delle buone intenzioni potesse cambiare i comportamenti della teocrazia rivoluzionaria sciita. I brogli elettorali, la repressione dell'opposizione e i continui rifiuti ad accettare le proposte della comunità internazionale hanno convinto la Casa Bianca a trovare una via alternativa. L'intellettuale neoconservatore Norman Podhoretz sostiene da tempo la necessità di un intervento militare contro i siti nucleari iraniani, ma dice al Sole che non riesce a immaginare Obama che bombardi l'Iran. Continua a pensare che lo faranno gli israeliani, anche se aggiunge: «Sotto ogni punto di vista sarebbe meglio che lo facessero gli Stati Uniti. Sarei molto felice se Obama mi smentisse».
Il Wall Street Journal ha scritto che Gerusalemme sta migliorando le sue capacità militari offensive e difensive e che nei prossimi mesi Netanyahu e Barak potrebbero cambiare il capo di stato maggiore dell'esercito e il direttore del Mossad, i due membri del gabinetto di guerra più contrari all'intervento in Iran. Occhio, quindi, a chi prenderà il loro posto. Il capo del Pentagono, Bob Gates, ha detto che il Dipartimento della difesa ha appena aggiornato i piani militari. Nessuno però crede davvero che Obama abbia deciso di bombardare l'Iran, anche se lo sta silenziosamente facendo in Pakistan con gli aerei senza pilota. La spiegazione più probabile ai tamburi mediatici di guerra di questi giorni è diplomatica: Washington vuole far capire agli iraniani che il tempo della chiacchiera è finito, che ora si fa sul serio, che non è più possibile impedire a Israele il diritto all'autodifesa. Potrebbe essere una versione aggiornata della politica del "big stick" ideata un secolo fa da Theodore Roosevelt, un altro presidente interventista e Nobel per la Pace. Dopo aver invano teso la mano agli iraniani, Obama vorrebbe negoziare pacificamente con il nemico, minacciandolo però con un grosso bastone. Il problema si porrà se gli ayatollah continueranno a dire di no.