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Questo articolo è stato pubblicato il 08 agosto 2010 alle ore 08:05.
Quando, nel 2007, cominciò la crisi dei titoli derivati dai prestiti ipotecari americani, si pensò che il problema fosse circoscritto alla complessità e opacità di quei titoli e della loro collocazione nel sistema finanziario. Quando molte banche, anche in Europa, si scoprirono in difficoltà, si ritenne che fosse questione di illiquidità, senza comprendere che si stavano diffondendo gravi situazioni di insolvenza. Fino al fallimento di Lehman, non si seppe cogliere la vera natura della crisi, che derivava da un eccesso generalizzato di indebitamento di operatori finanziari e non, privati e pubblici, accumulatosi in anni di politiche monetarie troppo espansive e di finanziamenti dei quali si era gravemente sottovalutata la rischiosità. Non si comprese, inoltre, che il problema era "sistemico", ossia moltiplicato dalle complesse interrelazioni fra banche e mercati e quindi ben maggiore della somma dei problemi dei singoli operatori finanziari.
La lezione principale di questa prima fase della crisi è stata dunque l'inadeguatezza della diagnosi, dovuta alla carenza dei criteri e degli apparati di vigilanza. I quali non ricevevano sufficienti informazioni sugli strumenti, sui mercati e sugli operatori e, soprattutto, non erano attrezzati per valutare il quadro d'insieme dei rischi di instabilità nazionali e internazionali, né per cogliere il legame fra l'imprudenza delle politiche monetarie e il deterioramento della qualità del credito e dei portafogli finanziari. Ora la lezione è stata imparata, ma le profonde riforme della vigilanza che essa suggerisce stentano ancora ad essere realizzate, sia negli Usa che in Europa, per una serie di difficoltà tecniche e, soprattutto, di ostacoli politici e pressioni di gruppi di interessi.
* Franco Bruni è docente ordinario di Teoria e politica monetaria internazionale all'Università Bocconi