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«Big G don't be evil», non essere malvagia

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Questo articolo è stato pubblicato il 12 agosto 2010 alle ore 08:07.

«Don't be evil». Nel 2004, alla vigilia della quotazione in Borsa, Larry Page e Sergey Brin – i giovani fondatori di Google, che si apprestavano a diventare milionari di lì a poco – distribuiscono alla comunità finanziaria un prospetto informativo irrituale per Wall Street. Quantomeno, per un'inedita promessa, vergata nero su bianco: Google non farà del male a nessuno.
«Google, don't be evil», non essere malvagia. Sei anni dopo, la scritta campeggia sulla homepage di Save The Internet (www.savetheinternet.com), un'associazione alla quale partecipano «due milioni di cittadini e migliaia di associazioni e aziende», per proteggere la libera natura della rete. E quindi, anche per scongiurare gli attacchi alla cosiddetta neutralità: in altre parole, garantire che tutti i bit che ci transitano vengano considerati uguali davanti alla legge del mondo digitale, senza distinzione di provenienza, di applicazione o di gadget utilizzato per connettersi.
E il guaio è che oggi – dopo che Google e Verizon hanno proposto di non applicare la neutralità alle reti mobili – per centinaia di associazioni e per migliaia di blogger, il colosso della Silicon Valley è diventato ufficialmente evil. Save The Internet propone di allagarlo con email di protesta, tutte intestate: «Google, don't be evil».
«Il patto fra Google e Verizon punta a uccidere internet così come oggi la conosciamo», taglia corto Craig Aaron, direttore di Free Press, un'organizzazione non profit che si propone di far evolvere i mezzi di comunicazione e al tempo stesso proteggere la democrazia. «La proposta che fanno, apre le porte alla conquista della rete da parte delle aziende». Ma la particolare l'acrimonia nei confronti di Google, deriva forse dal fatto che la regina del web ha fatto un bel voltafaccia.
«Internet sta affrontando una seria minaccia. C'è un dibattito che si sta infiammando a Washington sulla cosiddetta net neutrality. È un dibattito così importante che vi chiediamo di prenderne parte, di agire per proteggere la libertà di internet». E queste non sono le odierne parole di un altro blogger, ma una dichiarazione fatta quattro anni fa (estate 2006) da Eric Schimdt, l'amministratore delegato di Google.

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Tags Correlati: Apple | Borsa Valori | Craig Aaron | Eric Schimdt | Google Maps | Larry Page | Microsoft | Nokia | Save | Sergey Brin | The Internet | Verizon | Wall Street

 

Ora, a dire il vero, nel documento congiunto pubblicato da Google e Verizon (il primo operatore americano nella telefonia mobile), si sprecano le premesse a tutela della neutralità della rete e della centralità degli esseri umani. «Gli utenti – si legge – devono poter scegliere i contenuti, le applicazioni e i device che usano, dato che nell'esplosiva innovazione che ha fatto dell'internet un mezzo rivoluzionario, la libertà ha un ruolo centrale». Ma i blogger (e la stragrande maggioranza degli osservatori di cose tecnologiche) non ci credono. «Cinque allarmi sulla net neutrality», titolava ieri Pc World. «Il patto Google-Verizon fa sembrare buona la Bp», rincarava l'Huffington Post.
Il guaio è che, dai tempi della quotazione a oggi – quando il modello di business di Google era ancora evanescente e interamente basato sulla pubblicità – di cose ne sono successe. La società fondata in una stanzetta della Stanford University da Page e Brin, ha comprato YouTube e DoubleClick; si è buttata sulla posta elettronica (Gmail) e sulle localizzazioni geografiche (Google Maps, Street View); ha creato dal nulla un sistema operativo per strumenti mobili (Android), un browser (Chrome) e presto debutterà con un sistema operativo per pc (Chrome OS). Eppure, per sua stessa natura, ancora non sa bene cosa farà da grande.
Un po' perché questa è la natura del mondo digitale nel quale è nata e prosperata: tutto cambia, e velocemente. Un po' perché – dopo aver creato un nuovo mercato e dopo aver messo le dita nella torta di Microsoft, Nokia, Apple e quant'altri – non sa più da che parte rigirarsi senza pestare i piedi a qualcuno. Inclusi i suoi stessi utenti.
Insomma, dai tempi in cui fu coniato don't be evil a oggi, Google si è trovata a fronteggiare battaglie dove un po' duri bisogna essere (ad esempio quella con la Repubblica Popolare Cinese) e altre dove cattivi si finisce per apparire: quella della privacy.
Un'inchiesta del Wall Street Journal di ieri, rivelava dei caratteristici tormenti aziendali. In un documento di due anni fa, il vertice di Google si poneva alcune domande: usare di più le informazioni disponibili sugli iscritti a Gmail? Far nascere una piattaforma sulla quale vendere i dati dei clienti? Oppure offrire una versione di Google a pagamento senza pubblicità?
La tentazione di usare di più e meglio le informazioni che Google ha su ognuno di noi, è forte. Non a caso, la società è sotto tiro in Germania, per aver usato l'opportunità di fotografare le strade tedesche per il servizio Street View e intanto raccolto dati privati sulle reti wi-fi che incontrava: per lo stesso motivo, la polizia sucoreana ha pequisito la sede di Google a Seul, due giorni fa.
Finora, per quanto ne sappiamo, l'azienda californiana ha saputo trattenere i suoi impulsi più "cattivi". Anche se lo stesso Wall Street Journal narra di un'accesa discussione sul tema, fra un Page-colomba e un Brin-falco. È un imperativo: la società deve comunque continuare a riaggiustare il suo modello di business.
Che Verizon abbia solo da guadagnare, qualora la Fcc americana e il Congresso acconsentissero ad abbandonare la neutralità sulle reti mobili, è palese: da un servizio più veloce, potrebbe incassare di più. Ma cosa ci guadagnerebbe Google è molto meno chiaro. Di sicuro, qualcos'altro accadrà. Ma, stretta fra i confini della privacy, dell'etica e della democrazia digitale, avrà sempre la tentazione – solo la tentazione – di valicarli. Basta aggiustare, insieme al modello di business, anche il motto aziendale: don't be too evil. Non essere troppo malvagia.
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