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La «gobba» delle pensioni è già qui

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Questo articolo è stato pubblicato il 15 agosto 2010 alle ore 08:01.


ROMA
La "gobba" – così l'allora Ragioniere generale dello stato Andrea Monorchio definì il picco della spesa previdenziale rispetto al Pil – è già qui. In anticipo di 25 anni rispetto alle previsioni. Ad accelerarne l'arrivo è stata la crisi economica e, in particolare, il crollo del Pil (-1% nel 2008 e -5,3% nel 2009), che sulla previdenza ha poi un ulteriore effetto: anche dall'andamento del l'azienda Italia, infatti, dipende la misura delle future pensioni contributive, quelle cioè calcolate non più sulle retribuzioni degli ultimi anni di lavoro (come è con il sistema retributivo) ma sui contributi versati nell'intera vita lavorativa moltiplicati per un coefficiente di trasformazione che, oltre alle speranze di vita, è calibrato appunto sull'andamento del Pil reale.
Scricchiolano, così, due capisaldi della riforma Dini della previdenza – la legge 8 agosto 1995, n. 335, in vigore dal 17 agosto di quell'anno – che proprio in questi giorni compie quindi 15 anni: il primo, messo nero su bianco all'articolo 1 di quella legge, era la stabilizzazione della spesa rispetto al Prodotto interno lordo; e il secondo, l'introduzione del sistema contributivo in luogo del retributivo per il calcolo delle pensioni, che alla luce dell'ultima recessione potrebbe rivelarsi incapace di mantenere un adeguato potere d'acquisto dei futuri assegni previdenziali (si veda anche l'articolo qui sotto).
Per effetto del crollo del 2009, l'evoluzione della spesa pensionistica sul Pil si è profondamente trasformata, non solo con l'anticipazione della famigerata "gobba", già da quest'anno al 15,5% quando invece era prevista a quei livelli nel 2035, mentre il rientro al di sotto del 14% (13,4%, per la precisione) si è spostato in avanti di almeno 10 anni (al 2060) rispetto alle vecchie stime.
Stime che, vale la pena ricordarlo, si basano su uno scenario macroeconomico molto positivo, con una crescita del Pil reale dell'1,5% l'anno per tutto il periodo di previsione. Nel 1995, anno del varo della riforma Dini, il rapporto della spesa pensionistica sul Pil era del 16,4% ma all'epoca l'economia, sia pure di poco, cresceva ancora. Poi la curva si è appiattita a fronte di una spesa pensionistica che, nonostante le riforme, è rimasta piuttosto rigida. Nell'ultimo rapporto del Nucleo di valutazione della spesa previdenziale (dicembre 2009) si faceva notare che tra il 1998 e il 2007 i tassi annui di incremento della spesa previdenziale sono scesi dal 13% al 6%, con una stabilizzazione intorno al 4% tra il 2004 e il 2008.

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Tags Correlati: Andrea Monorchio | Dini | Inps | Italia | Previdenza | Prodi

 

E negli anni a venire come andrà? Le strette sui requisiti di pensionamento, varate a più riprese dopo la riforma Dini, stanno producendo i loro risultati. Prima è arrivata la legge Prodi (449/97) che ha inasprito le condizioni di accesso alla pensione di anzianità e ritoccato le aliquote contributive, poi è seguito lo "scalone Maroni" del 2004 (legge 243) con un ulteriore salto dell'età di pensionamento, poi rimodulato dalla Damiano-Prodi del 2007 (legge 247) che ha gradualizzato il passaggio ai nuovi limiti di età per la pensione di anzianità con una serie di scalini che porteranno il requisito a 61 anni di età (62 per gli autonomi) a partire dal 2013. Sempre secondo il Nucleo di valutazione l'incremento della spesa pensionistica al netto dell'indicizzazione sarà pari all'1,8% nel triennio 2008-2010. È un miglioramento molto significativo ma per vederne gli effetti il Pil in questo triennio avrebbe dovuto mettere a segno una performance analoga in termini reali. Così non è stato e le prospettive per gli anni a venire non sono rosee.
Per tenere la curva nei limiti indicati dalle proiezioni, bisognerà traguardare il 2035, quando entrerà definitivamente a regime il sistema contributivo puro e giungere al 2050-2060, quando usciranno di scena le coorti dei babyboomers. Ma nella ancora lunga transizione servirà un'economia tonica, un livello di produttività pro-capite più elevato, un tasso di occupazione vicino al 65% (contro il 56% attuale) e una demografia stabilizzata dall'ingresso nel mercato del lavoro di almeno 200mila immigrati l'anno. Non è poco per garantire la tenuta del sistema. Il grosso della riduzione della spesa pensionistica sul Pil l'ha fatta la riforma Amato del 1992, che con la nuova indicizzazione basata solo sull'inflazione determinò a regime un risparmio di 5 punti di Pil sui 7 complessivi garantiti sempre a regime (2035) con la riforma Dini.
Una stabilizzazione ulteriore è arrivata con le ultime norme appena varate dal governo Berlusconi. Ma il dossier pensioni è tutt'altro che chiuso, e il confronto europeo appena avviato per discutere le tesi del nuovo Libro verde Ue sulla previdenza lo dimostrerà già nel prossimo autunno.
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