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Venti milioni di sfollati in Pakistan

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Questo articolo è stato pubblicato il 15 agosto 2010 alle ore 08:00.

Per il Pakistan quella di ieri doveva essere una giornata di festa. La celebrazione, con il tradizionale giorno di anticipo sull'India, dell'indipendenza dall'Impero britannico e della nascita di un stato musulmano moderno e ambizioso. Il 14 agosto 2010 è andato invece in archivio come la data in cui 170 milioni di pakistani sono stati messi di fronte al fallimento economico e politico di quel progetto. Per la devastazione portata dai monsoni in un paese ancora incatenato, dopo decenni, alla propria vocazione agricola; per l'incapacità del governo di organizzare una risposta credibile alla crisi; per la rapidità ed efficienza con cui gli antagonisti di uno stato sempre più impotente hanno ancora una volta riempito il vuoto lasciato dalle istituzioni.

«So che c'è un pezzo di terreno asciutto», spiega Taj Mohammad, un contadino della provincia meridionale del Sindh, mentre la sua famiglia sale su un trattore diretto verso una distesa d'acqua dove un tempo c'erano campi e strade. «È lì che stiamo andando». Lontano dalla relativa sicurezza dell'accampamento di fortuna che da giorni li ospita. Ma vicino a quanto è rimasto della propria casa. «Torno per proteggere le nostre cose e il nostro bestiame», racconta. Anche a rischio di venire travolto dalla prossima ondata di piena come è capitato a chi, pochi giorni fa, è stato svegliato dallo scoppio degli argini e ha dovuto scegliere quale figlia salvare e quale lasciare inghiottire dalla corrente. Perché perdere, per mano degli sciacalli armati di barche e fucili, tutto ciò che si è messo in salvo sul tetto di casa, sembra una fine più attraente. Ma in realtà e solo più lenta.

Osservare la mappa delle devastazioni portate dal monsone in Pakistan invita a tracciare, sotto il pelo dell'acqua, una vera e propria geografia del dolore. Quello venato di umiliazione dei popoli guerrieri del nordovest, dove ai campi profughi lasciati in eredità dai conflitti vecchi e nuovi che lacerano questa terra di confine si sono aggiunti quelli dell'alluvione. Quello misto alle paure per il futuro del paese che serpeggia in Punjab, la provincia più ricca e industrializzata del Pakistan che per nessuna ragione può fermarsi, pena il ripiegarsi su se stessa dell'intera nazione. Quello disperato del Sindh agricolo e feudale, dove nelle estati normali si prega per l'acqua e dove oggi chi si siede su una sponda dell'Indo non riesce a vedere cosa c'è dall'altra parte. Né le centinaia di migliaia di case spazzate via dalla corrente tutto attorno. Né i 700mila ettari di terra fertile ormai sommersa dalla quale dipendeva l'esistenza di milioni di pakistani.

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Tags Correlati: Asif Ali Zardari | Governo | India | Mohammad Taj | Onu | Pakistan | Raza Gilani | Sindh

 

Ieri, nel giorno in cui le Nazioni Unite hanno confermato il primo caso di colera tra gli sfollati e i soccorritori hanno denunciato la drammatica mancanza di vaccini, il primo ministro Yousuf Raza Gilani è andato in tv. Ha parlato di 20 milioni di persone colpite, quasi il 12% della popolazione, e ha approfittato dell'anniversario dell'indipendenza per tracciare un paragone tra il dramma attuale e la tragedia inenarrabile della Partizione del 1947 con i suoi milioni morti e le sue ferite ancora aperte.

L'obiettivo del paragone non era solo quello, ovvio, di solleticare la voglia di riscatto del proprio popolo. Nelle parole di Gilani c'era anche un tentativo di richiamare l'attenzione del mondo su un dramma che, diversamente dallo tsunami del 2005 e dal terremoto di Haiti del gennaio scorso, non ha fatto breccia nell'immaginario collettivo dell'Occidente ricco e caritatevole. In parte perché lo svolgimento è stato lento e progressivo, senza un singolo momento in grado di monopolizzare l'attenzione dei media; in parte perché il dolore dei pakistani è ormai materia fin troppo consueta per fare notizia; e in parte perché, mentre il paese andava a fondo, il suo presidente Asif Ali Zardari continuava ostinatamente ad attraversare l'Europa in un'interminabile sequenza di visite ufficiali costellate di strette di mano e sorrisi ogni giorno più surreali.

Ciò che si trova oggi tra le mani Zardari è una catastrofe politica e di immagine senza precedenti. Dalla quale hanno tratto vantaggio sia l'esercito che le charity islamiche come Jamaat-ud-Dawa che già soccorsero le vittime del terremoto del Kashmir del 2005. I primi, assumendo la guida delle operazioni di soccorso, hanno ribadito il proprio status di istituzione cardine di un paese che hanno governato per circa metà della sua storia. I secondi, considerati dall'India i mandanti degli attentati di Mumbai del novembre 2008, hanno portato gli aiuti tangibili della propria formidabile macchina logistica e la retorica incendiaria di quella dottrinaria dove lo stato ancora una volta non è stato in grado di arrivare.

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