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Questo articolo è stato pubblicato il 29 agosto 2010 alle ore 08:04.
Amano sempre più il fai-da-te, ma quando si affidano ai gestori professionali non disdegnano qualche incursione negli investimenti alternativi, in particolare nel private equity e nell'immobiliare. Le fondazioni bancarie italiane si dividono fra tradizione e innovazione quando si tratta di impiegare i quasi 60 miliardi di euro che custodiscono nei loro portafogli. Lo dimostra un'analisi effettuata da Prometeia, che ha messo a confronto i bilanci 2008 e 2009 degli 89 enti presenti sul territorio italiano, mettendo in evidenza una serie di tendenze, in gran parte determinate dagli avvenimenti che hanno segnato i mercati finanziari in questi ultimi 3 anni.
La parte del leone negli investimenti delle fondazioni la fanno come sempre gli asset gestiti in via diretta, che rappresentano in media il 72% dell'attivo (con casi superiori al 90% come per la Fondazione Mps, Cariverona e Torino). Questo, se si vuole, è una sorta di retaggio storico, visto che su questo dato influiscono le azioni detenute come partecipazione nella banca conferitaria (in media il 32% dell'attivo, con casi superiori all'80% come Genova, Ferrara e Monteparma), ma rappresenta per certi versi anche un segnale del tempo.
«Rispetto all'anno precedente - osserva Claudio Bocci, responsabile della consulenza agli asset manager per Prometeia - si è assistito a una strutturale ricomposizione da prodotti obbligazionari verso investimenti diretti sempre in prodotti a reddito fisso». Le Fondazioni, in altre parole, hanno preferito vendere fondi fixed income gestiti da terzi (-1,7 miliardi fra il 2008 e il 2009) per ricomprare in prima persona titoli che in fin dei conti appartengono alla stessa classe di investimento (+1,1 miliardi): un vero e proprio travaso che sarebbe stato ancora più accentuato se non fosse per l'avanzata dei prodotti buy-and-hold, fondi che contengono titoli corporate con la medesima scadenza e che rappresentano una via di mezzo fra il gestito e il fai-da-te. «Dietro il fenomeno dell'uscita dai fondi - puntualizza Bocci – si nasconde in primo luogo una certa disaffezione verso le performance delle soluzioni gestite durante la crisi, sia in termini di rendimenti, sia in termini di gestione del rischio liquidità e controparte. Ma anche il fatto che gli investimenti diretti possono essere trattati in modo più efficace a livello contabile».