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Questo articolo è stato pubblicato il 02 settembre 2010 alle ore 08:05.
NEW YORK. Dal nostro inviato
Si sono concluse con la resa di Lisa Murkowski le primarie del partito repubblicano in Alaska. Con lei, senatrice in carica il cui padre ha occupato la stessa poltrona per 22 anni prima di passarle il testimone, ha perso l'establishment del partito. Come anche in Utah, Kentucky, Nevada, Florida, Connecticut e Colorado.
In ordine di importanza hanno invece vinto: Sarah Palin, il Tea Party e Joe Miller, il candidato venuto dal nulla. L'ex governatrice ha vinto perché ha trasformato un avvocato di provincia con un buon pedigree - ex sostituto procuratore e medaglia di bronzo al valore militare nella prima guerra del Golfo - nel simbolo della guerra all'establishment di Washington. E perché con quella vittoria ha dato la seconda dimostrazione di quanto determinante possa risultare il suo supporto nelle primarie repubblicane. La prima l'aveva data in Colorado, dove il candidato dell'establishment John McCain è riuscito a vincere soltanto dopo averle chiesto assistenza (e aver speso oltre 21 milioni di dollari).
Che abbia vinto il Tea Party lo ha sottolineato lo stesso Miller nel suo messaggio di ringraziamenti. Subito dopo la Palin, l'ex sostituto procuratore ha infatti reso omaggio al movimento che lo ha sostenuto con un esercito di militanti e con oltre 300mila dollari in spot televisivi.
Gli analisti, sia repubblicani che democratici, concordano. «Murkowski ha clamorosamente sottovalutato la potenza di fuoco dei seguaci del Tea Party e anziché fare come ha fatto McCain, e cioé compensare spendendo una montagna di soldi, si è fatta illudere dai sondaggi iniziali. La sua sconfitta ha dimostrato che, almeno nelle primarie, i seguaci del Tea Party non possono più essere ignorati» osserva Andrew Halcro, ex parlamentare statale oggi consulente politico in Alaska.
Per Miller adesso la strada è chiaramente in discesa. I sondaggi di ieri gli davano circa 16 punti di vantaggio sul suo avversario, il democratico Scott McAdams. E in uno stato solidamente repubblicano e culturalmente conservatore come è l'Alaska, è difficile che per i democratici possa funzionare la strategia su cui punteranno a novembre ovunque si trovino avversari legati al Tea Party, quella di fare appello all'elettorato moderato dipingendo il candidato repubblicano come un fanatico estremista.