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Israeliani e palestinesi trattano per la pace (benedetti da Obama)

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Questo articolo è stato pubblicato il 02 settembre 2010 alle ore 08:02.

Potreste dar torto a israeliani e palestinesi? Come semplifica Dov Weissglass, braccio destro dell'ex premier Ehud Olmert che arrivò a un passo da un accordo, «la maggioranza degli israeliani non crede che l'avversario abbia sinceramente intenzione di vivere in pace e teme che uno stato palestinese sia una minaccia. Nessun palestinese crede che Israele si ritirerà dalla Cisgiordania e acconsentirà mai all'indipendenza palestinese».

In tutta coscienza, nei loro panni, la penseremmo diversamente? Prima d'infastidirci per la loro ostinazione a spararsi addosso e perdere le opportunità della pace, non avremmo anche noi gli stessi timori degli israeliani se fossimo al loro posto e quelli dei palestinesi nel loro?
Prima l'attentato di martedì con quattro morti vicino a Hebron. Poi, ieri sera tardi, un altro dalle parti di Ramallah: una raffica di mitra per strada contro due israeliani rimasti gravemente feriti.

Nella psicologia dei due popoli da troppo tempo ostili, gli atti di terrorismo e le rivendicazioni di Hamas sono la conferma di tutto ciò a cui vogliono credere: che tutti gli israeliani sono colonizzatori di terre arabe e che tutti i palestinesi sono potenziali terroristi. Come per dare conforto alle paure palestinesi, ecco Naftali Bennett, segretario generale del movimento dei coloni, annunciare che «per quanto ci riguarda il congelamento decade» e dunque si ricomincia a costruire insediamenti. Ed ecco che da Gaza centinaia di bambini vengono mandati in strada a festeggiare gli attentati. L'ultimo sondaggio fatto a Ramallah rivela che il 31,7% dei palestinesi è favorevole a riprendere il negoziato diretto con Israele: è la maggioranza rispetto a chi vuole continuare quello indiretto, a chi non vuole nessun negoziato e chi la guerra di Hamas. Ma è solo il 31%. Un eventuale sondaggio israeliano non rivelerebbe percentuali diverse.

È fra queste due oneste paure - una paura simmetrica, la chiamerebbero subito sherpa e negoziatori - che una volta di più oggi a Washington si ricomincia. Palestinesi e israeliani di nuovo faccia a faccia; con un presidente degli Stati Uniti determinato a meritarsi un Nobel per la pace dato sulla parola; con arabi moderati ed europei come testimoni volenterosi; con un'opinione pubblica sospettosa di essere di fronte all'ennesima ripetizione di un fallimento. Martedì il segretario di Stato Hillary Clinton aveva incontrato il premier israeliano Bibi Netanyahu e poi il presidente palestinese Abu Mazen. Ieri i due protagonisti hanno visto ancora separatamente il presidente Barack Obama, l'egiziano Hosni Mubarak e il giordano re Abdullah, invitati a questa kermesse americana di pace in Medio Oriente. Infine tutti a cena alla Casa Bianca. Parole nobili, promesse che il terrorismo spezzerà la volontà dei presenti di raggiungere la pace. «Una carneficina insensata non fermerà la trattativa», garantisce Barack Obama. «Bisogna cogliere l'occasione».

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Tags Correlati: Barack Obama | Cisgiordania | Ehud Barak | Ehud Olmert | Gerusalemme | Hamas | Hillary Clinton | Hosni Mubarak | Medio Oriente | Naftali Bennett | Politica | Ramallah | Yitzhak Rabin

 

La giornata dell'Evento è oggi. Di nuovo tutti assieme ai blocchi di partenza, corridori e giudici di gara, per dare il via alla "Trattativa diretta fra israeliani e palestinesi" già partita con podisti diversi e fallita nel 1992, 1995, '97, 2000, 2001 e 2008. A Oslo, Washington, Cairo, Wye Plantation, Camp David, Taba, Annapolis e nei corridoi di qualche altro posto. È per questo che i partecipanti di oggi non devono inventarsi niente.

Tutti conoscono i temi da affrontare per arrivare alla pace e quali sono i sacrifici che devono fare per superarli. Ricordandosi finalmente di essere il leader laburista e il delfino di Yitzhak Rabin, ieri il ministro della Difesa Ehud Barak ha detto di essere favorevole alla spartizione di Gerusalemme in una capitale d'Israele a Ovest, dove vivono gli ebrei, e in una palestinese a Est dove stanno gli arabi. Sembra una soluzione ovvia, quasi banale, ma Barak ha toccato un nervo delicatissimo: Gerusalemme è il capitolo più ostico e anche la trattativa che oggi riprende a Washington dovrà affrontarlo. Barak lo aveva già detto e ieri Bibi Netanyahu, anche lui ripetendosi, lo ha smentito: Gerusalemme resta capitale indivisibile del popolo ebraico.

Gli altri capitoli, problematici in ordine decrescente ma non molto meno ostici di Gerusalemme, sono come convincere 5 milioni di profughi palestinesi che non potranno tornare a vivere a Jaffa e Haifa ma solo nel nuovo Stato palestinese, quando ci sarà; quale Stato palestinese deve nascere per garantire la sicurezza d'Israele. Una settimana dopo aver lasciato Gaza, gli israeliani videro piovere su di loro i razzi di Hamas. E poi ancora: come smantellerà Israele le colonie nei Territori occupati senza una guerra civile? Sono gli stessi problemi sollevati nel 1992. Non sono stati ancora risolti: ma eccetto qualche limatura, tutti sanno quali dolorose rinunce i due nemici dovranno fare. Il punto è quello di prima: le paure nevrotiche ma reali dei due popoli.

Alla domanda: "volete la pace?" israeliani e palestinesi hanno sempre detto si con percentuali plebiscitarie. Ma quando i negoziatori definiscono quella pace, le cose cambiano: Gerusalemme, profughi, colonie, sicurezza erodono ai minimi termini la voglia di normalità. «La pace entro un anno», diceva ieri e ripeterà oggi Barack Obama. Non è solo un atto di fede: è anche una necessità perché, come tutti, il presidente americano sa che se quella di Washington, oggi, sarà ancora una falsa partenza, l'alternativa è un altro conflitto regionale. Prepararsi alla guerra desiderando la pace fino al punto di perdere di vista quest'ultima, è l'attività principale dei governi e delle milizie che vivono in questa regione.

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