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Una nuova visione oltre gli incentivi

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Questo articolo è stato pubblicato il 03 settembre 2010 alle ore 08:06.


È una di quelle parole che inquietano. Evoca burocrati e funzionari di partito che si arrogano il diritto di scegliere imprese vincenti e settori "del futuro", confondendo obiettivi politici e finalità elettorali e magari rapporti con imprese amiche...
Eppure la politica industriale ritorna di moda. Da anni Dani Rodrik dell'Università di Harvard ne auspica una rivalutazione, e mentre alcuni paesi in via di sviluppo - troppo "poveri" per diventare un modello - plasmano il pianeta con i loro interventi pubblici, altri - Israele, Singapore - tentano vie nuove puntando su ricerca e imprenditorialità (con risultati però discutibili). La crisi ha fatto il resto e la storia della Chrysler racconta quanto siano cambiate le cose.
Il richiamo del presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, cade allora su un magma di idee e proposte che, in Italia, si sovrappone però alla realtà di un paese che avrebbe bisogno innanzitutto di tanta competizione in più e zero criminalità organizzata e corruzione, di cui si parla troppo poco. Il rischio di cadere in vecchi riflessi condizionati, in cui il governo si occupa di cose che non gli appartengono, è allora in agguato; e - su questo c'è ampio accordo - va evitato. «Politica industriale è un'espressione che è diventata sovraccarica di significati - dice Giuseppe Berta, docente all'Università Bocconi -. Preferirei parlare di un ministero che crei le condizioni per attirare investimenti in Italia, e mantenerli. Quella che è mancata, fin qui, è una visione dello sviluppo, che è altra cosa da una politica dirigista. Per esempio: dobbiamo o no avere un'industria dell'auto? Germania, Francia e Stati Uniti hanno risposto che non riescono a immaginarsi uno sviluppo senza».
Una visione che non si trasformi in programmazione sembra essere, per molti economisti, la chiave per reimmaginare la politica industriale. «Oggi non si parla più di sussidi e incentivi - dice Patrizio Bianchi, rettore dell'Università di Ferrara - ma di una visione coerente che integri interventi diversi; e l'oggetto non sono più le macchine, ma le persone. Questo è il punto chiave». Diventano quindi importanti, per Bianchi, gli investimenti in scuola e formazione: «La Merkel - spiega - ha fatto una manovra durissima, ma non ha toccato educazione e ricerca». Questi interventi vanno collegati in una visione coerente dello sviluppo che comprenda anche incentivi alle famiglie e alle imprese, da definire «a livelli diversi di governo: lo stato, ma anche l'Europa e le regioni», spiega Bianchi che è anche assessore alla scuola, ricerca e lavoro per la Regione Emilia Romagna. L'ambiente, il sistema edilizio e i servizi alle persone sono gli ambiti su cui punterebbe: «Non abbiamo nessuna difficoltà a pensare, ma ad avere una visione chiara. E se la politica è quella dei tagli...».

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Tags Correlati: Bocconi | Concorrenza | Dani Rodrik | Giorgio Napolitano | Harvard | Italia | Patrizio Bianchi | Pubblica Amministrazione | Salvatore Modica

 

A mancare, però, potrebbe essere proprio una volontà politica vera, che coinvolga il paese intero. «Politica industriale oggi - spiega Gianfilippo Cuneo, consulente d'azienda - vuole dire cambiare situazioni di privilegio e in Italia c'è molta ipocrisia e poca volontà di incidere per ricostruire condizioni di competitività che non ci sono». È infatti la competitività fra gli stati che, secondo Cuneo, l'obiettivo di una moderna politica industriale: se quel 50% delle imprese aperte alla concorrenza internazionale «non sono messe in condizione di competere e non sono abbastanza grandi, spariscono senza essere rimpiazzate da nulla». La sua proposta è incidere sulla gestione del lavoro («occorre flessibilità, poter licenziare, poter assumere senza subire rapporti quarantennali, poter gestire le fabbriche») e una politica fiscale che faciliti il lavoro («L'Irap è la cosa peggiore che si possa fare, in termini di politica industriale»). Cuneo è inoltre molto scettico sugli incentivi all'innovazione: «Sono cose di cui ci riempiamo la bocca: le imprese serie, con imprenditori seri, l'innovazione la fanno».
Il rischio di ricadere in vecchie logiche resta quindi fortissimo. Soprattutto quando si affronta la situazione del martoriato Mezzogiorno. Anche qui, però, una politica industriale old-style non ha senso. «Avrebbe molto più senso - dice Salvatore Modica dell'Università di Palermo - intervenire sulle distorsioni e sui blocchi allo sviluppo. Sulle regole più che sui singoli interventi. Qui in Sicilia occorrerebbe avere rispetto dei contratti, lealtà e senso del dovere anche nei rapporti "micro" del business to business; riallineare le retribuzioni, l'organico della Regione; eliminare la privacy nella pubblica amministrazione» in modo che il cittadino possa "provare" le inefficienze. Per attirare investimenti occorre intervenire sull'ambiente in cui si lavora: «L'istruzione, la burocrazia, la giustizia e quindi la legalità, anche nei piccoli rapporti, come quelli tra il consumatore e il piccolo artigiano: su questo occorre incidere». Evitando i luoghi comuni: «La Cina è partita senza infrastrutture - ricorda Modica - e anche in Africa ci sono bassi salari». Per lo sviluppo, occorre qualcos'altro.
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