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Commenti e Inchieste

Cari americani, siamo ancora vivi

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Questo articolo è stato pubblicato il 05 settembre 2010 alle ore 14:35.
L'ultima modifica è del 05 settembre 2010 alle ore 08:06.

Sembrerà un'astrazione ai tanti che si stanno dedicando a temi come la riforma elettorale, sprovvisti (almeno per ora) di qualunque attualità. A me invece il dibattito sull'Europa tenuto vivo in questi giorni dal Sole 24 Ore è parso un essenziale richiamo alla realtà. Quanto più sono esposti a rischi la nostra economia, i nostri posti di lavoro e i nostri conti pubblici, tanto più dovrebbe starci a cuore lo stato di salute del contesto europeo, che è il gancio a cui siamo attaccati. E se il gancio dovesse cedere, saremmo fra i primi ad andare a rotoli.


Ebbene, pochi mesi fa era stato il direttore del Council for Foreign Relations, Richard Haas, a scrivere Cara Europa, il XXI secolo non ha più bisogno di te (così titolava il suo articolo proprio Il Sole 24 Ore il 14 maggio scorso). Pochi giorni fa, un altro osservatore americano, quel Charlie Kupchan che in un libro recente aveva indicato nel XXI secolo il tempo dell'Europa, ha scritto a sua volta "Vecchia Europa, il tuo tempo è finito" (Il Sole 24 Ore, 1° settembre) parlando di una «morte lenta e prolungata» della nostra Unione. Ma che cosa ci sta succedendo, se è così che ci vedono dagli Stati Uniti? Siamo davvero a questo punto?
L'analisi così impietosa dei nostri amici americani è mossa da un dato di cui siamo noi stessi consapevoli, il vigore crescente dei nazionalismi e delle domande politiche interne rispetto alle ragioni comuni. In più, essi misurano la forza dell'Europa in primo luogo nella politica estera, e questo è proprio il terreno su cui la nostra azione comune è più embrionale e il peso degli stati nazionali è tuttora preminente. Anche di ciò siamo consapevoli, così come sappiamo che nelle stesse vicende economiche, dove - e lo vedremo - si è preso a fare ben di più, i ritardi con cui ci siamo mossi e il ruolo giocato dalle questioni (e dalle visioni) interne tedesche hanno colpito i nostri interlocutori, oltre a creare vistose divergenze fra noi e gli Stati Uniti.


Sono valutazioni critiche che non possiamo negare, al contrario - come dicevo - le condividiamo noi stessi. Quello che mi chiedo, però, è se esse portano davvero al cuore del problema che ha l'Europa di oggi e se aiutano a scorgere la soluzione, che pure comincia a delinearsi. I nazionalismi - è vero - ci sono e si sono accentuati, ma alla fin fine non sono una novità, c'erano anche prima e anche in passato ci hanno fatto attraversare dei brutti momenti. Né sono una novità i leader non smaglianti, perché neppure in passato abbiamo sempre avuto leader smaglianti.

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Tags Correlati: Andreas Vosskuhle | Charlie Kupchan | Corte Costituzionale | Ecofin | Germania | Lisbona | Padoa Schioppa | Partiti politici | Philip White | Richard Haas

 

Il fatto è che dal trattato di Maastricht in là, da quando decidemmo cioè che l'economia e gli affari esteri rivestivano sì un interesse comune, ma per realizzarlo ci saremmo limitati a coordinare le nostre politiche nazionali, ai nostri leader non è stato mai chiesto nulla più che un tale coordinamento: e quindi non l'adozione di politiche e di misure davvero europee, ma l'adozione di politiche e di misure nazionali, reciprocamente compatibili e compatibili con gli obiettivi comuni. Solo di recente e solo davanti all'incombere di una crisi che ha messo in discussione la stabilità dell'euro abbiamo dovuto accorgerci che questo sistema non aveva dato i frutti sperati e tanto meno ci sarebbe servito in un frangente così difficile.


Per i nostri nazionalismi diventava improvvisamente ineludibile produrre ciò che mai era stato chiesto loro di produrre, politiche e misure davvero europee. È stato a questo punto che essi, prima ben più rilassati fra le ampie pieghe del precedente vestito europeo, si sono trovati alle strette e sono venuti in piena luce come un ostacolo per la vitalità stessa dell'Unione. Un ostacolo che ad alcuni è parso insormontabile, quando la torsione nazionalista è stata percepita anche in Germania. Un tempo motore dell'integrazione, essa aveva ora un cancelliere che sembrava più sensibile ai suoi elettori che alle ragioni europee e una Corte costituzionale che, pur "assolvendo" il trattato di Lisbona, poneva paletti invalicabili all'integrazione e se stessa a guardia dei paletti.
Se questa è la novità in cui ci siamo trovati, però, è certo vero che gli interessi nazionali hanno avuto davanti ad essa una visibile impennata. Ma non è meno vero che non hanno impedito l'adozione di politiche e misure europee in un ambito nel quale non si era mai andati oltre il coordinamento di politiche e misure nazionali. È stato adottato in maggio un vero e proprio regolamento per dotare l'Europa di un meccanismo di stabilizzazione nel settore finanziario e un altro regolamento andrà martedì all'approvazione dell'Ecofin per l'istituzione di autorità europee di vigilanza nello stesso settore. Non è molto, ma gemendo e scricchiolando i nazionalismi stanno aprendo i primi spiragli verso soluzioni europee per questioni che non le avevano mai conosciute.


Forse lo fanno perché la necessità è più forte di loro. Ma forse non sono tutti chiusi come li si è dipinti. Prendiamo proprio la Germania. Giovedì scorso Carlo Bastasin ha ricordato giustamente su questo giornale il discorso tenuto dalla Merkel ad Aquisgrana il 13 maggio (Il XXI secolo può ancora essere il secolo europeo). Mentre dobbiamo tutti quanti prender nota della sentenza con la quale il 27 agosto la Corte costituzionale tedesca, guidata dal suo nuovo presidente, il quarantatreenne Andreas Vosskuhle, ha fortemente corretto la precedente decisione sul trattato di Lisbona, manifestandosi nuovamente aperta al diritto dell'Unione e ai suoi possibili sviluppi.
Nonostante tutto, siamo ancora in carreggiata. Dove rischiamo di uscirne è caso mai nelle politiche economiche che seguiamo, a partire proprio dalla Germania. Ha ragione Padoa Schioppa, intervistato venerdì su questo giornale, a sostenere le ragioni di una crescita equilibrata e di consumi meno elevati di un tempo. Ma può la Germania continuare a vivere sulle esportazioni (Philip White, del Centre for European Reform, invita il 2 settembre a valutare con cautela il recente aumento dei consumi tedeschi, dopo la loro prolungata caduta)? E possono gli altri europei seguirla sulla stessa strada, tenendo tutti bassa la domanda interna a spese, evidentemente, di disavanzi commerciali altrui? Insomma, va bene un'Europa più tedesca nell'equilibrio dei conti, e magari anche nella produttività, ma non va bene un'economia europea che aggrava gli squilibri del mondo. Per evitarlo, e per evitare che la stessa Germania rimanga prigioniera di sé, sono ancora misure europee a servire; misure d'integrazione del mercato e d'investimento, che senza rischi per i conti pubblici dinamizzino la crescita del nostro continente e gli stessi consumi interni.
L'Unione Europea è ancora viva e gli amici americani, anziché dichiararla defunta, la richiamino alle responsabilità che le spettano. Toccherà a noi allargare gli spiragli verso il futuro che abbiamo cominciato ad aprire.
© RIPRODUZIONE RISERVATA

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