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Il fumogeno non coprirà il coraggio dei riformisti

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Questo articolo è stato pubblicato il 09 settembre 2010 alle ore 08:26.

Raffaele Bonanni ha il torto di essere un sindacalista che firma le intese e le difende nelle assemblee. Anche di fronte a chi non è d'accordo. Non sfugge la dialettica: crede nei suoi argomenti, tenta di creare consensi anche quando l'aria si fa difficile. Ma di fronte all'intolleranza nemmeno un abruzzese tosto può far molto. L'assalto al palco di Torino, mentre parlava di lavoro e diritti, va condannnato. Qualcuno, anche dopo l'analogo episodio con il presidente del Senato Schifani ha parlato di «tutela del dissenso». Non c'entra un bel nulla: il dissenso è enzima in democrazia, ma tappare la bocca, insolentire, farsi forte tra bulli è il contrario del dibattito. Né basta a giustificare queste provocazioni che anche i potenti usino in questi giorni metodi spicci. Non è copiando il peggio della Casta che la piazza cambierà il paese. La violenza prima è verbale, poi chissà.

Sono tempi di tensioni e servirebbe essere seri anche da parte di chi fa per mestiere il commentatore sui giornali. Che senso ha, ad esempio, scrivere – come il Manifesto in conclusione di un corsivo contro l'ex ministro, ed ex segretario Fiom, Cesare Damiano "colpevole" di aver aperto alle richieste di Sergio Marchionne – «Datemi un martello». Un martello per fare che? «Per darlo in testa a chi non mi va» come cantava Rita Pavone? Per quanto siano tempi di veline e canzonette quel riferimento resta inquietante, né possiamo illudervi che qualcuno tra i facinorosi ricordi Pete Seeger e la sua bella ballata di protesta If I had a hammer.

La politica è alle prese con uno stallo tra partiti in cerca di voti e di risposte sulle emergenze dell'economia. È polarizzata tra gossip e conflitti istituzionali, senza una terra di mezzo in cui cercare le risposte ascoltando i suggerimenti della società. L'economia cerca soluzioni, anche dalla politica, per l'uscita da una crisi durata più del previsto e scatenata sui settori con violenza diversa. Nella terra di mezzo in cui politica ed economia non riescono a incontrarsi ci sono anche le relazioni industriali. È qui che azioni, passioni, sogni di altrettante vite lavorative si traducono in regole, in canoni condivisi, nello scambio antico tra fatica e denaro. Per tutti gli attori, ma proprio per tutti, il rinvio dei temi, la fuga dai problemi, non è più una risposta possibile.

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Tags Correlati: CGIL | Cisl | Confindustria | Emma Marcegaglia | Federmeccanica | Fiom | Giorgio Cremaschi | Guglielmo Epifani | Pete Seeger | Politica | Pomigliano | Raffaele Bonanni | Rita Pavone | Torino | Uil

 

La crisi ha fatto esplodere le contraddizioni dei partiti e delle parti sociali: per tutti è ora di cambiare. Si vedrà come – e in che tempi – la politica uscirà dall'impasse. Si vede invece come imprese e sindacati provano a rispondere alla sfida. Sergio Marchionne da manager globale, ponendo un problema di efficienza della contrattazione rispetto alle esigenze di una competizione planetaria. Dove si sta solo se si produce a certi ritmi e a certi costi.

Lo standard di Pomigliano, uno degli stabilimenti del Sud su cui la casa di Torino intende puntare nell'ambito del progetto di Fabbrica Italia (20 miliardi d'investimenti che forse troppo spesso ci si dimentica), non è in linea con quegli standard. È toccato ai rappresentanti delle parti rimettere in asse le regole di quel luogo. E così, con la buona volontà di Cisl, Uil e Ugl, è stato fatto.

La spinta di Marchionne, della Federmeccanica, della Confindustria va in quella direzione: per applicare le regole di Pomigliano occorre rivedere la cornice generale del contratto nazionale. Come del resto prevede anche la nuova architettura negoziale stabilita con l'accordo del 2009 in cui sono esplicitamente previste deroghe da calibrare a seconda delle esigenze di alcuni particolari settori produttivi. Accade già per la siderurgia e non è uno scandalo. L'importante è che la trattativa per la definizione dei contenuti si svolga con l'attenzione al merito dei problemi reali e non all'ideologia o al solo valore simbolico-politico di questa o quella vertenza. Vedere anche illustri menti accanirsi su cavilli e parlare di diritti nel deserto del lavoro amareggia. Sembra di tornare ai mandarini imperiali, smarriti con il loro corredo burocratico, davanti alla storia viva.

La svolta Fiat ha creato una nuova dimensione, un "luogo geometrico dei punti di conflitto" dove comporre la dialettica sociale ed economica. L'importante è che tutti i protagonisti siano all'altezza e partecipi, anche la Cgil. È comprensibile che la Fiom legata a Giorgio Cremaschi abbia convenienza a trincerarsi nella ridotta del no, parecchio distante dal confronto. A restare seduti in trincea ci si sente anche eroi perché – infine – non ci si batte mai, si evadono i problemi delle persone in nome di questo o quello slogan. Si incassa qualche successo, magari personale (o personalistico?) senza mai la responsabilità degli impatti economici delle proprie scelte. E quando proprio non si può fare a meno si entra in campo per interposta persona, come nel caso dell'autunno giudiziale promesso dalla Fiom che annuncia battaglia a colpi di ricorsi. Così guadagna il capocorrente, mai i lavoratori. E i coristi possono fingere di salvarsi la coscienza, senza il coraggio di chiedersi davvero: vogliamo che ci siano operai in Italia nel XXI secolo?

Guglielmo Epifani, riformista e razionale per storia e carattere, ha tentato di cambiare strategia, di vaccinare la Fiom con l'innovazione negoziale, ma alla fine ha dovuto assecondare le pulsioni massimaliste di un sindacato dei metalmeccanici, ormai diventato una anomalia nella mappa associativa della stessa Cgil. E chi ha memoria ricorda il sindacato di Lama, di Scheda, di Trentin, capace di riforme e di utopie, di accordi sul lavoro e discussioni sui Consigli, ma sempre nemico degli estremismi verbali. Ora toccherà a Susanna Camusso, che dalla Fiom viene, gestire la complessa partita dei rapporti tra Cgil e meccanici. Deve scegliere se restare incerta, mentre altri giocano la partita o se entrare in campo, nel campo delle regole della produzione globale, e imporre il proprio contributo, senza certo rinunciare alla propria identità, interloquendo con Confindustria e Federmeccanica. È quello che auspicano i non pochi riformisti alla Fausto Durante che in Fiom militano da sempre con il coraggio della buona volontà. È quello che suggerisce Cesare Damiano.

Il sindacato funziona se agisce sulle condizioni dei lavoratori, non se si arrocca sul no e lascia ad altri la decisione sulle sorti di fabbrica e persone. Nè ha senso immaginare un Vietnam nelle aule di tribunale o tantomeno prefigurare – come ha fatto intendere il segretario dei meccanici Cgil Maurizio Landini – una "rappresaglia" sulle piccole aziende del settore da mettere in conto Fiat (e chi ne pagherebbe il prezzo vero segretario Landini? Quelle Pmi che sappiamo così in affanno? I meccanici delle cinture? Che tristezza!). Sarebbe tattica ben grama quando in gioco ci sono investimenti colossali attraverso i quali passa anche l'immagine stessa del paese e la sua capacità di attrarre (o meno) investimenti produttivi. Alla lunga resterebbero i diritti da esercitare su un deserto. La Storia metterà di fronte alla prima presidente donna di Confindustria, Emma Marcegaglia, la prima leader donna della Cgil, Susanna Camusso. Hanno un'occasione storica, nei rispettivi ruoli, per modernizzare l'Italia, garantire imprese e operai, e provare in fondo che, nei momenti più difficili, l'altra metà del cielo se la cava meglio degli uomini.

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