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Il cancro al-Qaeda non è vinto, la lotta durerà a lungo

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Questo articolo è stato pubblicato il 11 settembre 2010 alle ore 11:41.

Un'altra ricorrenza dell'11 settembre è arrivata e un nuovo film ripercorre l'ascesa di al-Qaeda e illustra le difficoltà che s'incontrano per capirla.
A distanza di quasi nove anni dagli attentati, gli Stati Uniti hanno ancora 100mila soldati che combattono e muoiono in Afghanistan, mentre altri 50mila resistono in Iraq. Nella prigione statunitense della Baia di Guantánamo a Cuba sono ancora reclusi 176 prigionieri. Una serie d'inquietanti attentati sventati o falliti per un soffio hanno riportato la minaccia del terrorismo in primo piano tra le notizie. In un sondaggio Gallup eseguito alla fine di agosto, il 47% degli americani intervistati ha affermato che quest'anno la questione del terrorismo sarà "estremamente importante" ai fini del voto per il Congresso, e un altro 28% l'ha definita "molto importante".

Allo stesso tempo, vi è anche la sensazione che il terrorismo abbia perso di rilevanza come questione politica rispetto all'economia e all'insoddisfazione generale nei confronti di Washington, che hanno messo in secondo piano tutte le altre preoccupazioni. Il clima di anti-islamismo forse è in crescita, ma il terrorismo non pare scatenare le accese reazioni di un tempo.

Prendiamo My Trip to al-Qaeda, un nuovo documentario del regista Alex Gibney che nel 2008 ha vinto un Oscar per Taxi to the Dark Side. Il suo ultimo lavoro, trasmesso il 7 settembre su Hbo, è un monologo, basato su un testo di Larry Wright, il giornalista del New Yorker e autore del libro Le altissime torri che ha ricevuto il Premio Pulitzer e resta il resoconto risolutivo dell'11 settembre, degli eventi che portarono a quel giorno, del cast di eroi che cercò invano di scongiurarlo. In My Trip to al-Qaeda Wright diventa protagonista lui stesso, racconta la storia delle sue ricerche finalizzate a comprendere che cosa spinga i radicali islamisti a imbracciare le armi.

My Trip to al-Qaeda è una performance dal vivo che vede Wright starsene su un set appena arredato che dovrebbe evocare il suo ufficio di New York, con tanto di archivi di una volta pieni di documenti divisi per ordine alfabetico. Gibney ha apportato al film qualche ritocco, per esempio rendendo lo schermo alle spalle di Wright più grande rispetto a quello originale presente sul set, e trasformandolo in uno strumento utile a ulteriori osservazioni. Di conseguenza, vi si possono seguire alcuni avvincenti spezzoni dei filmati dei "martiri" di al-Qaeda, le riprese di una delle visite al Cairo di Wright, alcune rare fotografie dei riti più segreti praticati durante il pellegrinaggio alla Mecca.

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«Volevo che diventasse una sorta di portale magico», spiega Gibney, utilizzando non soltanto immagini reali di al-Qaeda e del Medio Oriente, ma anche materiale di vario tipo girato in prima persona da Wright nel corso della sua vita. L'impulso provato da Wright a comprendere gli eventi dell'11 settembre lo hanno portato a eseguire centinaia d'interviste e a intraprendere vari viaggi in Egitto e in Arabia Saudita, i due paesi che hanno per così dire dato i natali ad al-Qaeda. Anzi, secondo quello che Wright stesso dice, «al-Qaeda è un'organizzazione egiziana a capo della quale c'è un saudita, Osama bin Laden».

Wright aveva vissuto in Egitto da giovane, insegnando inglese all'Università americana del Cairo (Auc) a partire dal 1969, non molto tempo dopo che l'utopia di un socialismo pan-arabo del presidente Gamal Abdel Nasser si era infranta per la sconfitta subita nella Guerra dei Sei Giorni con Israele, ma prima che migliaia di egiziani si recassero a lavorare nei giacimenti petroliferi in pieno sviluppo del Golfo Persico, e assorbissero al contempo la variante locale più conservatrice di Islam che caratterizza la regione. Era in ogni caso prima che le politiche di Nasser lasciassero una scia di crescita economica stagnante, di congestione soffocante, di repressione politica che perseguita quel paese ancora oggi.
Quando a distanza di 33 anni Wright è ritornato in Egitto per intervistare alcune persone per il suo libro Le altissime torri, ha trovato il paese radicalmente cambiato. Alla televisione si potevano ancora vedere film in bianco e nero risalenti all'epoca liberale antecedente a Nasser, o trovare alcuni vecchi conducenti di taxi canticchiare sommessamente le canzoni di Umm Kulthum o Abdel Halim Hafez. Ma, in linea generale, il paese gli è parso più tetro, più irrequieto e nervoso di quanto ricordasse, e ancor più nel momento in cui è scoppiata la seconda Intifada palestinese. Alla fine «così tanti islamisti mi avevano mostrato il dito medio proprio sotto il naso che dovevo trattenermi dal reagire e strapparne via uno, cercando di darmi contegno».

L'esperienza che ha lasciato maggiormente il segno in Wright ha avuto luogo in Arabia Saudita, dove si trasferì nel 2003 avendo trovato un posto presso la Saudi Gazette di Gedda, con l'incarico di occuparsi della formazione dei giovani giornalisti per tre mesi, pur continuando a lavorare al suo libro. «In realtà sono stati tutti quei giovani a insegnare a me cose del loro paese, molte più di quante avrei mai potuto scoprire facendo soltanto il giornalista», dice. Per Wright si trattò dunque un bel colpo di fortuna, che gli consentì di tenere un basso profilo e non essere preso di mira dai servizi di sicurezza sauditi, d'intervistare un buon numero di famigliari e amici degli attentatori dell'11 settembre. «Invece di "giornalista" ero considerato "lavoratore immigrato" e quindi non ero controllato più di tanto».

Uno dei momenti più memorabili del film è il confronto instaurato da Wright tra l'Arabia Saudita e una gallina ipnotizzata, paragone che a quanto pare ha offeso i diplomatici sauditi. Al pari delle galline che egli era solito tormentare da piccolo, quando viveva nelle campagne dell'Oklahoma, facendole ruotare su se stesse più volte per poi metterle sul tetto del fienile dove si paralizzavano in preda al panico, così «l'Arabia Saudita è in una sorta di coma sociale». Secondo Wright i sauditi sono traumatizzati dai cambiamenti che vedono accadere intorno a loro e dalla violenza che caratterizza la loro stessa storia. Wright sostiene di non «prendere in giro in alcun modo l'Arabia Saudita, ma di cercare di esprimere il senso di paralisi distintivo di quella società».

Benché sia andato in onda nella settimana dell'11 settembre, My Trip to al-Qaeda, uscito oltre quattro anni dopo Le altissime torri, pare nondimeno rispettare una tempistica particolare. I vertici di al-Qaeda sono acquattati da qualche parte, lungo il confine tra Afghanistan e Pakistan, e a quanto sembra sono troppo tormentati per rendere nota qualche cosa in più del loro occasionale messaggio online. Il loro ramo in Iraq è stato in buona parte messo fuori gioco dai comitati del Risveglio sunnita. La Jihad si è spostata verso nuovi terreni di battaglia, per esempio in Yemen e Somalia, grazie a gruppi e affiliati della regione che paiono in ogni caso essere incapaci di organizzare attentati spettacolari e di provocare una distruzione di massa. Un'Amministrazione statunitense in buona parte nuova ha continuato a portare avanti ciò che ha dato frutto: tranquille operazioni di antiterrorismo, condivisione delle intelligence, individuazione precisa dei bersagli dei droni, abbandonando invece tutto ciò che è risultato non dare frutto: invasione e occupazione militare, retorica eccessivamente tronfia, "tecniche energiche di interrogatorio".

Tutto ciò, mette in guardia Gibney, non dovrebbe ispirare compiacimento, ma consentire agli Stati Uniti di mettere in atto politiche più sostenibili. «Il problema è che il terrorismo non sparirà in ogni caso – dice –. La guerra al terrore è un'espressione che lasciava intendere che lo si potesse far sparire, che ci sarebbe stata una sorta di battaglia conclusiva e che la democrazia avrebbe vinto a discapito del terrorismo che avrebbe perso».
«Io credo che al-Qaeda alla fine sparirà – riflette invece Wright –. Alla fine si esaurirà perché non raggiunge buoni risultati e non ha nulla da offrire. Scomparirà, ma ciò che ha provocato resterà con noi per sempre». (Traduzione di Anna Bissanti)
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