Storia dell'articolo
Chiudi
Questo articolo è stato pubblicato il 12 settembre 2010 alle ore 14:13.
Mai come in questi giorni, da Tokyo a Pechino, i fattori valutari si intersecano con i calcoli politici, in vista di due appuntamenti importanti: le elezioni giapponesi per la leadership del partito di governo e una delicata audizione congressuale del Segretario del Tesoro Usa Timothy Geithner.
Mentre lo yen ha toccato questa settimana un nuovo minimo da 15 anni sul dollaro a quota 83,3, a rafforzare la sensazione che Tokyo stia affilando le armi per un intervento sul mercato dei cambi sono state le schermaglie pre-elettorali. Il premier Naoto Kan deve fronteggiare la sfida di Ichiro Ozawa per la presidenza del Partito Democratico e se martedì dovesse uscire sconfitto dovrebbe con tutta probabilità rassegnare le dimissioni. Un Ozawa eventuale premier è considerato come un più deciso fautore dell'intervento, oltre che di una politica fiscale meno rigorosa; così Kan ha dovuto alzare i toni e dichiarare che il suo governo sta «facendo varie cose per evitare che Usa ed Europa reagiscano negativamente se il Giappone agirà». L'esecutivo ha varato venerdì un minipacchetto di stimoli all'economia da circa 11 miliardi di dollari, nel giorno in cui il Pil del secondo trimestre è stato rivisto al rialzo a un tasso annualizzato dell'1,5% (rispetto alla stima preliminare di +0,4%). «Un double-dip nella recessione resta improbabile, ma l'ascesa dello yen e la frenata del mercato azionario peseranno sull'economia – afferma il senior economist di Mitsubishi-Ufj Ms, Tatsushi Shikano – Di conseguenza le autorità sono tentate di intervenire vendendo yen e allentando ulteriormente le condizioni monetarie». Stando a quanto si arguisce dal dibattito preelettorale, Tokyo sembra aver abbandonato come impraticabile l'idea di un intervento congiunto con altri paesi, ma sta inviando messaggi a Usa ed Europa perché stiano zitti in caso di iniziativa unilaterale nipponica. Secondo Takuji Okubo di Société Générale, però, Tokyo non dovrebbe agire prima che lo yen salga intorno a quota 80. Una partita a scacchi già vista si sta intanto svolgendo tra Pechino e Washington, dopo il summit bilaterale di questa settimana in Cina. Venerdì, a sorpresa, la banca centrale cinese ha portato il fixing giornaliero dello yuan a 6,7625 sul dollaro (da 6,7817 di giovedì), il livello massimo da quando nel 1994 ha cominciato a pubblicare la parità centrale. Un massimo storico che non incanta, visto che rappresenta un aumento intorno allo 0,9% rispetto al livello del 19 giugno scorso, quando fu abolito il peg sul dollaro in vigore da due anni. Dopo un leggero incremento a fine giugno, lo yuan era rimasto stabile in luglio e si era indebolito in agosto: specchio della determinazione delle autorità cinesi a segnalare agli investitori internazionali di non scommettere su una rapida ascesa della divisa. Poiché l'altro ieri è emersa anche un leggero calo del deficit commerciale Usa verso la Cina in agosto rispetto a luglio, Geithner potrà presentarsi al Congresso non del tutto a mani vuote nel contrastare le richieste di ritorsioni commerciali per l'insoddisfacente ritmo di Pechino nella liberalizzazione del cambio.