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Stop ai processi, «scelta obbligata»

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Questo articolo è stato pubblicato il 15 settembre 2010 alle ore 08:01.


ROMA
Una «scelta obbligata» del legislatore, perché l'attività di governo «non è programmabile» come quella parlamentare. Perciò il giudice non può sindacare sulla legittimità dell'impedimento del premier, ma può solo verificare che sia reale e rientri tra quelli «tipizzati». Fatto ciò, «deve rinviare» il processo. Punto e basta. Questo impone la «leale collaborazione». A meno che l'imputato-premier decida il contrario. E tanto basta a escludere qualunque «automatismo». Quanto al fatto che a certificare l'impedimento «continuativo» del Presidente del consiglio (fino a 6 mesi, rinnovabili per due volte) sia la Presidenza del consiglio, è una «scelta» dettata dalla «necessità» e «opportunità» di attribuire questo «delicato compito» a un soggetto «distinto» rispetto al premier imputato. Per non lasciarla, insomma, nelle mani del premier medesimo.
Con queste motivazioni, Palazzo Chigi, attraverso l'Avvocatura dello stato, difende a spada tratta, davanti alla Corte costituzionale, la legge n. 51 del 2010 sul «legittimo impedimento». Che non è un'immunità, neppure sotto mentite spoglie - si legge nelle 19 pagine dell'atto di intervento all'udienza del 14 dicembre - ma «istituto processuale» previsto dal Codice e «rimodulato» dal legislatore in considerazione delle «peculiarità dell'attività governativa» e dell'interesse a garantirne «un sereno svolgimento». Una «scelta obbligata» quella di «tipizzare» per legge gli impedimenti che rendono «assolutamente impossibile» la partecipazione al processo, in veste di imputati, del premier e dei ministri: nei loro confronti è «impossibile» applicare le regole dettate dalla Consulta per i parlamentari, perché l'attività governativa è più «imprevedibile». Imprevisti che il giudice non può sindacare, se non al prezzo di «interferire» con l'attività di governo, esclusiva competenza del premier e ministri.
L'Avvocatura chiede alla Corte di dichiarare «infondate» le censure di incostituzionalità sollevate dalla I e dalla X sezione penale del Tribunale di Milano nei processi Mediaset-diritti tv e Mills. A firmare gli atti di intervento sono il vice Avvocato generale dello stato Michele Dipace e l'avvocato Maurizio Borgo. Che daranno man forte agli onorevoli Niccolò Ghedini e Pietro Longo, avvocati del premier. Tutte voci a favore del «legittimo impedimento».

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Tags Correlati: Alfano | Corte Costituzionale | Maurizio Borgo | Mediaset-diritti | Michele Dipace | Milano | Niccolò Ghedini | PDL | Pietro Longo |

 

Sebbene non vi sia alcun segreto, Palazzo Chigi ha circondato il suo intervento davanti alla Corte dal più assoluto riserbo, memore, forse, delle polemiche esplose l'anno scorso, quando, nel suo intervento sul Lodo Alfano, l'Avvocatura adombrò il pericolo che il premier, in caso di bocciatura della legge, potesse essere costretto alle dimissioni per difendersi davanti ai giudici. Il Lodo fu bocciato, e Berlusconi non si dimise. Ma quel passaggio fu letto da molti come un'indebita pressione sulla Consulta.
Stavolta i toni sono diversi, e gli argomenti più tecnici. Ma resta la valenza politica, tanto più in vista di scelte di cui si vocifera da giorni: una correzione della legge n.51/2010, al solo fine di far rinviare il verdetto della Corte); la rapida approvazione, almeno in prima lettura, del Lodo Alfano bis (lo scudo costituzionale in vista del quale è stato approvato il «legittimo impedimento»), anche qui per spuntare un rinvio del verdetto. Due strade che mal si conciliano con quanto sostiene l'Avvocatura. Che difende il «legittimo impedimento» a 360 gradi e ne mette in risalto la «diversità» dal Lodo Alfano bis: il primo ha come unica conseguenza «il rinvio dell'udienza», non la sospensione del processo, a tutela dell'attività governativa, e non del premier. Proprio l'«emanando» Lodo sarebbe la prova che il «legittimo impedimento» non è una prerogativa costituzionale ma un istituto processuale «rimodulato» con legge ordinaria in funzione delle «peculiarità» dell'attività di governo, meno programmabile di quella parlamentare e «più soggetta a variazioni». Perciò il giudice non può sindacarla, se non al prezzo di «interferire» con l'attività governativa; può solo controllare se l'impegno governativo sia reale e rientri tra quelli «tipizzati» dalla legge. Fatto ciò, «deve rinviare» il processo. Ma non c'è «automatismo», conclude l'Avvocatura, perché il premier può sempre decidere il contrario.
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DOPPIO FRONTE
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La difesa motivata del legittimo impedimento
Secondo l'Avvocatura dello Stato, la legge sul «legittimo impedimento» non configura una nuova prerogativa costituzionale in capo a premier e ministri, ma è solo un istituto processuale «rimodulato» in funzione dell'«imprevedibilità» dell'attività di governo. Di qui la sua «diversità» con lo scudo previsto dall'emanando Lodo Alfano costituzionale. Il giudice non può sindacare la legittimità dell'impedimento addotto ma, verificatane l'esistenza, «deve rinviare» l'udienza. Solo il premier può decidere il contrario.

L'accelerazione sul lodo Alfano bis
La Corte costituzionale si pronuncerà sul «legittimo impedimento» il 14 dicembre. Nel timore di un verdetto sfavorevole, il Pdl sta valutando di accelerare sul Lodo Alfano bis, per approvarlo in prima lettura prima del 14 dicembre e ottenere dalla Corte un rinvio del verdetto, sul presupposto che il Lodo sarebbe una versione costituzionalizzata del «legittimo impedimento»: tesi però in contrasto con quanto sostiene l'Avvocatura, secondo cui il Lodo e il «legittimo impedimento» sono due cose completamente diverse.

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