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Il topolino di Basilea e il ruggito della crisi

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Questo articolo è stato pubblicato il 15 settembre 2010 alle ore 09:00.
L'ultima modifica è del 15 settembre 2010 alle ore 08:51.

Per celebrare il secondo anniversario del fallimento di Lehman, la montagna di Basilea ha lavorato duramente, partorendo un topolino. Inutile dire che il settore bancario sosterrà che il topolino in realtà è una tigre, pronta a ingoiarsi in un sol boccone l'economia mondiale. Questa particolare lamentela - nella quale è maestro questo settore così viziato - dovrebbe essere bellamente ignorata: eliminare gli incentivi per i comportamenti più avventati e sconsiderati non è un costo per la società, bensì un costo per chi ne beneficia, e quest'ultimo non dovrebbe in nessun modo essere confuso con la prima.

Oggi serve un mondo con un settore bancario più piccolo e più sicuro. Invece, il difetto maggiore delle nuove normative è che esse mancheranno di garantirci proprio questo.
Sono forse troppo inflessibile? «I regolatori bancari mondiali hanno stretto un accordo mirante a triplicare le riserve di capitale che le banche mondiali dovranno custodire per premunirsi dalle perdite», si è letto sul Financial Times. Tutto ciò suona rigoroso, ma soltanto se si trascura di riflettere che triplicare pressoché niente porta davvero a molto poco.

Il pacchetto dei provvedimenti approvati prevede un rapporto tra capitale e rischio ponderato del 4,5%, oltre il doppio del livello attuale pari al 2% più un ulteriore margine del 2,5%. Le banche il cui capitale dovesse scendere nella zona cosiddetta di sicurezza andrebbero pertanto incontro a restrizioni sui pagamenti dei dividendi e dei bonus discrezionali. La normativa, dunque, fissa un'efficace soglia del 7%, ma i nuovi parametri dovranno essere completamente operativi soltanto entro il 2019, quando ormai la comunità internazionale avrà già vissuto un'altra crisi finanziaria o due.

Questa ammontare di capitale è di gran lunga inferiore ai livelli che i mercati imporrebbero qualora gli investitori non continuassero a dare per scontato che in una crisi i governi devono salvare in extremis i creditori, come dimostra l'esperienza storica. Di conseguenza, non servirebbe un disastro di immani proporzioni per portare tali istituti così indebitati a un passo dall'insolvenza creando il panico nei creditori non assicurati.

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Questi nuovi requisiti sono inoltre figli a tutti gli effetti di Basilea 2, in sostanza fanno affidamento su quelli che ormai dovrebbero essere screditate valutazioni del rischio. Potremmo quasi pensare ai nuovi standard come ad altrettanti "rapporti di inadeguatezza del capitale".

Parecchi analisti esaminano il possibile impatto delle regole a fronte di modelli economici standard. In particolare, la Bri e il Financial Stability Board hanno elaborato un documento nel quale si conclude che «si ritiene che un aumento di un punto percentuale nel rapporto indicativo tra patrimonio netto ordinario e attivi ponderati per i rischi porti dopo quattro anni e mezzo a un calo (medio) del livello di Pil quantificabile al massimo nello 0,9% rispetto al livello di partenza».

Sorpresa, sorpresa: gli esperti del settore forniscono previsioni superiori di otto volte circa. Il rapporto ufficiale, invece, risponde bruscamente: «Il settore calcola che, in assenza di un inasprimento dei regolamenti, le banche preferiranno aumentare il loro leverage negli anni a venire, ritornando ai livelli imperanti nel periodo immediatamente antecedente la crisi; inoltre il rapporto tra la crescita aggregata del credito e il Pil reale è più o meno la media rispetto al periodo di forte crescita del credito precedente alla crisi».

Qualsiasi creazione di questo tipo di parametri per i costi delle regole assomiglierebbe a un Amleto senza il fantasma: ignorerebbe chi tiene in mano le fila della trama. Non possiamo pertanto valutare i costi delle regole senza ammettere alcuni dati di fatto. Primo, sia l'economia sia il sistema finanziario sono scampati di poco alla morte definitiva. Secondo, i costi della crisi devono comprendere i milioni di disoccupati e le decine di migliaia di miliardi di dollari di produzione perduta, come ha sostenuto Andy Haldane, della Banca d'Inghilterra. Terzo, i governi hanno salvato il sistema finanziario ripartendone i rischi nella società. Infine, il comparto finanziario è l'unico con un accesso illimitato alle risorse pubbliche, e di conseguenza è di gran lunga quello che riceve i più sostanziosi sussidi al mondo.

Nel valutare i presunti costi connessi ai requisiti di capitale (e maggiore liquidità) si rende necessario pertanto ritornare ai principi originari. Prima di tutto, è falso affermare che il capitale costi, una volta che si sia riconosciuto il fatto che un capitale maggiore riduce il rischio per i creditori e i contribuenti, come dovrebbe essere. Meno capitale significa sì maggiore profitto, ma anche maggiori rischi.

In secondo luogo, nella misura in cui i creditori sostengono i costi del fallimento, più capitale significa debito meno caro. Pertanto, se il debito fosse veramente sprovvisto di sovvenzioni, cambiare il rapporto tra capitale e debito non dovrebbe influenzare le spese di finanziamento del patrimonio.

Terzo punto, nella misura in cui i contribuenti sostengono il rischio, un capitale maggiore controbilancia questo sostegno economico implicito. In linea generale, la popolazione in genere ha zero interesse - anzi, di fatto ha un interesse negativo - a sostenere economicamente i rischi che si accollano le banche. Per questa ragione, il sostegno economico offerto fornendo un'assicurazione gratuita deve essere compensato imponendo più alti requisiti di capitale.

Quarto punto, l'opinione pubblica ha interesse a imporre requisiti di capitale più alti rispetto a quelli che qualsiasi altra singola banca sarebbe disposta a sostenere nel suo stesso interesse. Le banche creano rischio sistemico con modalità endogene. Tale onere deve essere sostenuto dai decision maker. E aumentare la capacità di correre dei rischi è un modo per farlo.

Infine, nella misura in cui l'opinione pubblica vuole che sia sovvenzionata una specifica forma di assunzione del rischio - per esempio il prestito alle piccole e medie imprese - dovrebbe farlo direttamente. L'idea di sovvenzionare l'intero sistema bancario, o di persuaderlo ad assumersi quella che è una minima parte della propria attività, è improduttivo e inefficace in modo quasi grottesco.

In conclusione, quindi, i requisiti di capitale devono essere di gran lunga più alti, forse addirittura fino al 20 o 30%, senza ponderazione del rischio. A quel punto sarebbe anche possibile fare a meno delle varie forme di integrazione del capitale che durante una crisi, più che placare il panico, molto più verosimilmente lo esacerberebbero. Questa richiesta sembra così scandalosa soltanto perché ormai ci siamo abituati a fragili espedienti fuori dall'ordinario.

Con tutto ciò, non nego due grandi problemi. Il primo è che una simile transizione equivarrebbe quasi a togliere le sostanze stupefacenti dalle mani di chi è tossicodipendente. Il modo più semplice per ridurre al minimo i costi sarebbe far sì che i governi sottoscrivessero del capitale supplementare e poi, col passare del tempo, vendessero quello che raccolgono sul mercato. Anche così, però, i patrimoni aggregati del sistema bancario quasi certamente dovrebbero essere notevolmente diminuiti. Un simile deleveraging presumibilmente significherebbe un periodo più lungo di enormi deficit fiscali, superiori rispetto a quello che chiunque si può immaginare al momento.

Il secondo problema è che vi sarebbe un'incredibile probabilità di arbitraggi normativi, e i rischi si sposterebbero altrove all'interno del sistema. Simili rischi possono facilmente ricadere sul sistema bancario. Per questo motivo, più alti requisiti di capitale per le banche potranno funzionare soltanto se i regolatori saranno in grado d'individuare altrove la comparsa di rischi sistemici. I regolatori stanno cercando di rendere meno insicuro il sistema finanziario esistente. Ciò sarebbe già meglio che niente, ma in ogni caso non porterà alla creazione di un sistema sicuro. La comunità internazionale non può permettersi di affrontare un'altra crisi simile per almeno una generazione. Dagli standard attuali, invece, si evince che la situazione che si sta prospettando è semplicemente insufficiente. Il topolino non ruggirà mai abbastanza forte.

(Traduzione di Anna Bissanti)
© THE FINANCIAL TIMES

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