Questo articolo è stato pubblicato il 23 settembre 2010 alle ore 09:14.
Il boardIl consiglio. Il board di UniCredit è composto da 23 consiglieri Un canto polifonico con molti accenti Spettatore e protagonista insieme. Se la vicenda di Alessandro Profumo è una lotta di potere nell'Italia contemporanea interpretabile attraverso gli stilemi della tragedia greca, il consiglio di amministrazione è il coro che prima osserva distaccato le vicende e poi entra nel cuore dell'azione drammatica, sancendo l'estromissione definitiva di Profumo dal palcoscenico stesso di UniCredit. Al dunque, il coro è tutt'altro che muto. Parlano tutti. E, oltre alla pars destruens finalizzata a farlo fuori, con una koinè paradossale tutti concordano: tecnicamente Profumo ha fatto bene. Ogni coro ha le sue voci. E ogni voce ha il suo accento. C'è chi parla lo standard English, come Lucrezia Reichlin, la figlia di Alfredo Reichlin e di Luciana Castellina che ha diretto la ricerca della Bce. C'è chi, invece, l'ha "sporcato" con la propria lingua d'origine. Perché, dei 23 componenti, 8 sono stranieri. E c'è di tutto: dall'ex ministro delle Finanze tedesco Theodor Waigel a Marianna Li Calzi, la sottosegretaria con i governi Amato, D'Alema e Berlusconi che iniziò la sua carriera come pretore a Canicattì. Da Salvatore Ligresti da Paternò ad Antonio Maria Marocco, il piemontesissimo notaio della famiglia Agnelli che ha redatto l'atto di costituzione della Dicembre, fino al reggiano Donato Fontanesi, cooperatore specializzato in strade e appalti.
Dieter Rampl
Presidente. Tedesco di Monaco, classe '47, già ceo di Hvb Il bambino della fattoria che diventò presidente Dieter Rampl ogni giorno va a mangiare in un ristorante in Piazza Mercanti, con l'andatura dinoccolata, accompagnato da un più giovane assistente, anch'egli alto e dinoccolato. L'altro giorno ha guidato il coro che come in un atto di Eschilo ha posto il sigillo giuridico alla scelta di allontanare, dalla comunità chiamata Unicredit, chi questa comunità ha comunque fondato. In realtà, Rampl è più un personaggio manniano, da ascesa dal basso e cooptazione nella borghesia tedesca sospesa fra educazione ottocentesca e sensibilità tecnocratica da secolo scorso: appartiene all'establishment bavarese, tanto da essere membro dell'esclusivo board della squadra di calcio del Bayern, qualcosa di simile agli Amici della Scala a Milano o il Circolo del Whist a Torino. Ma, anche in virtù di una identità complessa (nato a Monaco, la madre è austriaca e alla sua morte cresce con i nonni in una fattoria del Tirolo, come Profumo fa l'università di sera), nei primi anni ha agito da mediatore fra il manager e le élite tedesche, facendo accettare a queste ultime l'acquisizione di Hvb da parte degli italiani. Non proprio una cosa semplice, in una città come Monaco, che dopo essere stata una importante piazza finanziaria si era ritrovata ridotta a colonia.
CariVerona. Classe 1938, è presidente della Fondazione da 17 anni La «sfinge» e il silente patto di Verona Paolo Biasi, ancora una volta, ha taciuto. Sarà pure grossier, il nomignolo "La sfinge" appiccicatogli a Verona, per la sua proverbiale capacità di muovere le cose senza proferire verbo in pubblico. Ma, certo, se l'è di nuovo guadagnato. L'altro giorno, al consiglio di amministrazione di Unicredit, ha invece preso la parola il suo uomo, quel Luigi Castelletti che di Piazza Cordusio è vicepresidente vicario in quota Cariverona. E, soprattutto, in pubblico in questi giorni ha dato fiato alle trombe il sindaco di Verona, Flavio Tosi, il cui favore ha salvato due settimane fa Biasi da qualunque ipotesi di sfiducia, dopo una vicenda giudiziaria relativa alle aziende di famiglia. Dunque se il coro greco, agitato dalle tensioni fra le fondazioni italiane e il blocco tedesco guidato da Rampl, ha potuto martedì sera identificare in Profumo il "farmacòs", il capro espiatorio, da scacciare dalla città bancaria, in fretta e soprattutto con furia, tutto questo è stato possibile soprattutto perché, quindici giorni prima, è andata in scena un'altra commedia: non di Eschilo, né di Sofocle, né di Euripide, bensì la scespiriana "I due gentiluomini di Verona", in cui nessuno dei due ha tradito l'altro. Senza questo patto fra Biasi e Tosi, forse, Profumo sarebbe ancora al suo posto.
Alessandro ProfumoL'impavido Mr. Arrogance, dalla vetta alla caduta «Per chi ha paura, tutto fruscia», scrive Sofocle. Per molto tempo, Alessandro Profumo non ha paura. Fa numeri importanti, gestisce con un distacco venato di disprezzo il rapporto con le fondazioni, convince gli analisti, impegna i suoi collaboratori in progetti ambiziosi. E stabilisce una fascinazione distante con la politica: va alle primarie del Pd ma pensa che, politica o no, nulla salus extra mercato, nessuna salvezza al di fuori del mercato. Un manager così convinto dei suoi mezzi da venire chiamato Mr. Arrogance. A un certo punto, i numeri diventano meno buoni, le relazioni con il potere più appiccicose, le squadre dei manager si logorano, con i suoi più stretti collaboratori mangiati neanche fosse Kronos, che si nutriva dei suoi figli. E, ora che ha lasciato UniCredit, la domanda finale: e se l'ipermodernista Profumo avesse peccato di ubris, la tracotanza che nel mondo omerico e classico rendeva poco lucidi, se non addirittura ciechi? Tutto è possibile. Di certo, però, Rampl e i suoi non hanno pensato a Eschilo, ma a giochi meno lungimiranti.
Fabrizio Palenzona
Ente Crt. Nato a Novi Ligure, 57 anni Un rapporto complesso: l'ultimo argine prima della fine L'alessandrino Fabrizio Palenzona, con il genovese Profumo, ha forse avuto il rapporto più complesso. Dentro al consiglio di amministrazione di UniCredit, in un coro da teatro greco che negli anni è stato prima passivo verso Mr. Arrogance, poi pronto a beatificarlo e quindi rapido nel cacciarlo senza avere nemmeno un sostituto, ha sempre provato a muoversi con il pragmatismo del politico piemontese che pesa oltre 150 chili. Le cose, fra i due, all'inizio non funzionavano: l'uno conosce l'alfabeto ipertecnico e la grammatica postideologica appresa alla McKinsey, il secondo parla la lingua morbida e dura imparata alla scuola della Dc. Poi, poco alla volta, come in un romanzo della cuneese Lalla Romano in cui le cose non sembrano cambiare mai e invece si modificano in maniera inarrestabile, i due alla fine si sono piaciuti. Senza fare della facile ironia, Palenzona si è opposto fisicamente ai tentativi di Rampl e di Biasi di sfiduciarlo. Ogni lunedì e venerdì, e qualche volta pure il martedì, era in Piazza Cordusio, per supportarlo nel progetto di Banca Unica. Tramite lui Tremonti ha cercato di evitare che la banca italiana più internazionalizzata si ritrovasse senza amministratore delegato. Alla fine, però, anche Palenzona ha mollato Profumo.
Giulio Tremonti
Ministro. Nato nel '47, guida il dicastero della Economia Fra spettatore e deus ex machina il doppio ruolo del ministro Giulio Tremonti, che fra le citazioni classiche ci sta benissimo, in questa vicenda è diviso fra il ruolo di spettatore e la parte di deus ex machina che, però, non riesce a volgere l'azione drammatica a suo favore. O, meglio, fra fondazioni bancarie prima sue avversarie e poi sue alleate e una Lega che ambisce a influenzare il mondo del credito ma si muove in un ordine sparso e spesso contraddittorio, il ministro del Tesoro rappresenta un convitato di pietra che, alla fine, cerca di fermare la slavina e, di fronte all'esito finale del consiglio di amministrazione di Unicredit, non può non definire “maldestro” il siluramento di Profumo. Con, in più, un ulteriore elemento scenico: dietro a lui si staglia infatti il motore immobile rappresentato dal presidente del consiglio, Silvio Berlusconi, la cui politica mediterranea è fortemente incentrata sul rapporto, money-oriented, con la Libia di Gheddafi. Proprio quella Libia che, come azionista, ha suscitato riflessi irrazionali negli amici leghisti e paure da perdite di centralità nelle fondazioni, così da permettere la costituzione di un blocco con i tedeschi. Altro che tragedia attica. Una contorsione e uno scambio di ruoli da commedia di Aristofane.
Mario DraghiBankitalia. Nato a Roma 63 anni fa, ha redatto il testo unico sulla finanza Dal governatore nessuna solidarietà da inner circle
Alla fine, Milano e Roma non sono Atene. Per provare a capire il rapporto fra Profumo e il governatore della Banca d'Italia, Mario Draghi, serve più la chiave del romanzo generazionale che non quella della tragedia greca. Entrambi, nell'Italia degli anni Novanta, hanno rappresentato la stagione delle liberalizzazioni e dell'efficienza per l'efficienza: le ristrutturazioni post Legge Amato, in cui l'ideologia del mercato ha fatto premio su tutto, e le privatizzazioni che hanno smantellato l'economia pubblica di un paese che, l'Iri, ce l'ha sempre avuto nel sangue. Il governatore, irritato per la mancata informazione sull'ingresso dei libici, ha scelto di rispettare la lettera delle leggi e dei regolamenti. Nessuna solidarietà da inner circle. Nel pieno rispetto delle regole e degli assetti azionari di quel mercato che entrambi hanno scelto come punto di riferimento. E, così, muovendosi secondo gli automatismi delle forme, Draghi ha preso la decisione di procedere tecnicamente, muovendosi in parallelo alla Consob. Con il focus acceso da Via Nazionale sulla governance della banca stessa, dati i rischi impliciti di un vuoto di potere e visti gli iniziali dubbi sulla piena legittimità e la piena funzionalità delle deleghe, quando queste ultime vengono trasferite al presidente.
I libici
Governatore. Fahrat Omar Bengdara, a capo della della Central Bank of Lybia Gli «invasori» e la goccia che ha dato il via alla tempesta
Sospesi fra l'investimento che stabilizzò oltre trent'anni fa il profilo patrimoniale di Fiat e l'ultima immagine del colonnello Gheddafi con hostess al seguito, gli azionisti libici in questa storia sono stati percepiti alla stregua dei «barbari», gli uomini che parlavano un linguaggio sconosciuto ai greci e, dunque, quelli guardati, da «Edipo Re» in giù, con sospetto. In questo caso, stranieri che, entrati nel cuore della cittadella finanziaria di UniCredit attraverso un investimento cospicuo, sono rimasti addirittura invisibili: noti a Profumo ma non a Rampl, il presidente del gruppo che su questa mancata comunicazione da parte dell'amministratore delegato ha deciso che, per l'uomo che ha costruito pezzo per pezzo Unicredit, era l'ora dell'esilio. Durante il consiglio di amministrazione di martedì sera, al Governatore della Central Bank of Lybia Fahrat Omar Bengadara, vicepresidente di UniCredit, è toccato il compito di ripetere la litania classica dell'investimento di lungo termine, nemmeno fosse il rappresentante di un qualunque fondo pensione dell'Ohio, e non, al di là di qualunque considerazione estetico politica, l'esponente di uno degli stati più liquidi del mondo.