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Questo articolo è stato pubblicato il 24 settembre 2010 alle ore 08:05.
Le fondazioni sono il vero problema del capitalismo italiano. Macchè, le fondazioni sono state e saranno, in una economia sempre meno ricca, la soluzione: non solo come azioniste, ma anche perché ridistribuiscono i denari dei dividendi ai territori, con una funzione quasi suppletiva di uno stato sempre più povero. E ancora: le fondazioni assomigliano a casseforti su cui siedono feudatari che a nessuno rispondono. Non è vero, le fondazioni subiscono troppo l'influenza della politica.
Non c'è nulla, in questo momento, che produca le reazioni più differenti. Nella violenza di uno scontro di potere che ha portato all'uscita di scena di Alessandro Profumo, perfino un uomo dalla prudenza cardinalizia come il presidente delle Generali, Cesare Geronzi, ha scelto una lingua di pietra, indicando il tasso di provincialismo con cui è stata gestita l'estromissione dell'ex amministratore delegato («un modo indegno perfino per una banchetta di provincia») e la sottomissione psicologica dei vecchi signori del credito alla Lega («i leghisti aprono la bocca a vanvera»). Bossi avrà anche lanciato l'Opa sulle banche. E il primo effetto sarà anche stato la sfiducia a Profumo. «Nelle fondazioni, però - osserva l'ex presidente della Bnl, Nerio Nesi - sono tutti, tutti, democristiani. Si tratta di un interessante elemento di continuità degli ultimi vent'anni. La prima repubblica è scomparsa, ma loro ci sono ancora». "Loro" sono il marcoriano Giuseppe Guzzetti in Cariplo, il democristiano di sinistra Dino De Poli in Cassamarca, l'ultraconservatore Paolo Biasi di Cariverona, il donatcattiniano Fabrizio Palenzona in Crt, per citare i più visibili e attivi.
Nesi, già socialista lombardiano e già ai vertici della vecchia Cassa di Risparmio di Torino, li conosce bene. «Non mi scandalizza - riflette - che questi uomini abbiano una storia politica alle spalle: i partiti hanno spesso selezionato personale di qualità, Beppe Guzzetti è il primo di tutti. Il problema è il rapporto che le fondazioni in quanto tali hanno con la politica. Ieri come oggi». Vent'anni fa, su questo delicato versante, il primo passo con la legge Amato-Carli, «che ha portato - rammenta lo storico dell'economia Giandomenico Piluso, autore del saggio Il banchiere dimezzato - alla graduale privatizzazione degli enti di credito di natura pubblica. Nel 1998, c'è stato il completamento con la Legge Ciampi, che ha influito sulla governance imponendo alle fondazioni di fare gli azionisti classici». Un iter legislativo-regolamentare importante. Su cui, al di là di limiti manifestatisi dopo come la autoreferenzialità dei vertici, l'élite del paese si spese bene. «La nostra classe dirigente - ricorda Vincenzo Desario, direttore generale della Banca d'Italia dal 1994 al 2006 - diede una buona prova di sé. Al di là di tutto, oggi lo possiamo dire. Ricordo bene un episodio: si iniziava a discutere della necessità di fare uscire la politica dalle banche e Lamberto Dini, allora direttore generale di Via Nazionale, a un convegno a Capri si pronunciò a favore della discesa delle fondazioni sotto la soglia della maggioranza. I partiti intonarono un coro di no. Alla fine, la cosa si fece». Una valutazione condivisa da Antonio Maccanico, che ha conosciuto a fondo le nostre istituzioni politiche e finanziarie: «L'obiettivo era quello di evitare che i partiti si inserissero nell'intermediazione del credito. In quel momento, funzionò».