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Parole tardive, difensive nella forma e concilianti nella sostanza

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Questo articolo è stato pubblicato il 26 settembre 2010 alle ore 08:01.

Se il «samizdat» elettronico di Gianfranco Fini fosse stato trasmesso non ieri sera, 25 settembre, ma agli inizi di agosto, lo avremmo considerato un buon discorso e un contributo alla trasparenza. Soprattutto per quel tentativo sacrosanto di fermare il «gioco al massacro» ed evitare lo spettacolo penoso che il circuito politico ha offerto in questi mesi. Oggi viceversa l'intervento appare tardivo e quindi piuttosto debole.


Tardivo perché nelle ultime settimane è successo di tutto ed è evidente la corrosione del quadro generale, nello sconcerto dell'opinione pubblica. Non solo la politica, ma purtroppo anche le istituzioni hanno perso credibilità. Fino al maldestro tentativo di coinvolgere i servizi di sicurezza (e meno male che il presidente della Camera su questo è corso ai ripari).
Ma tardivo anche per un'altra ragione: come è possibile che solo adesso Fini renda noto di aver chiesto al famoso cognato di lasciare la casa di Montecarlo? E come è possibile che il medesimo cognato non abbia prontamente seguìto il consiglio? Se quel suggerimento rifletteva la volontà di Fini, per lampanti ragioni di opportunità, come si spiega che la persona in questione sia ancora, a tutt'oggi, nell'appartamento?

C'è quindi un elemento di debolezza nella posizione sostenuta dal presidente della Camera, che peraltro pare esserne ben consapevole. Lo stesso passaggio chiave («mi dimetto qualora fosse dimostrato che Tulliani è il proprietario dell'immobile») non è del tutto chiaro. Fini sembra il primo a nutrire qualche dubbio sulla versione del cognato, tuttavia non ha proposto argomenti nuovi (o documenti inoppugnabili) per sciogliere il rebus in un senso o nell'altro. Né pare che il cognato si appresti a farlo. Come all'inizio della storia, ci si deve affidare alle garanzie verbali offerte dal protagonista della vicenda. In attesa delle indagini della magistratura nell'indecifrabile mondo «offshore». Ma raramente sostanza e tempi della verità giudiziale coincidono con sostanza e tempi della verità politica.

A meno che non si determini un comune interesse dei contendenti a concludere il conflitto. In tal caso le spiegazioni di Fini, benché non esaurienti, passano in secondo piano. Prioritaria diventa l'esigenza tutta politica di voltare pagina. Ed è chiaro che è questo l'obiettivo del presidente della Camera. Non c'è stato l'annuncio che «Futuro e Libertà» cesserà di sostenere il governo. Al contrario, nelle ultime ore i messaggi finiani erano rassicuranti per il premier, specie sul punto cruciale che preme a Palazzo Chigi: l'eventuale «sì» alla legge costituzionale in grado di garantire lo «scudo giudiziario» al presidente del Consiglio.

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Sotto questo aspetto l'intervento di Fini è stato dignitoso nei toni, difensivo nella forma e conciliante nella sostanza. Così almeno lo giudica l'ala moderata del Pdl, da Cicchitto a Matteoli, leggendovi un inizio di «autocritica». Questo è forse eccessivo, ma riflette l'esigenza di non gettare altra benzina sul fuoco. Mai come ora il governo è a rischio e la legislatura è in bilico. Berlusconi ha già rinunciato a chiedere il voto di fiducia, il 29. I dubbi sulla tenuta della maggioranza crescono e ieri Bossi è arrivato a suggerire al premier di rinunciare al dibattito, così da non trovarsi nei guai.

Se questa è la realtà dei fatti, si può ancora decidere che è tempo di sospendere le ostilità contro Fini. Sarebbe saggio, se ci fosse qualcuno in grado di imporre la pace. O almeno la tregua. Il che appare incerto.
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