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La dignità perduta davanti al paese

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Questo articolo è stato pubblicato il 28 settembre 2010 alle ore 09:02.
L'ultima modifica è del 28 settembre 2010 alle ore 09:04.

Dopo una lunga estate in cui la politica italiana ha dato il peggio di sé, e giunti alla vigilia del fatidico discorso del presidente del Consiglio alla Camera, i dubbi superano le certezze.

Di sicuro non basterà un intervento di alto profilo, ricco di promesse virtuose, per far dimenticare le ferite della maggioranza e convincere gli italiani che il governo si è rimesso al lavoro. Certo, il paese ha disperato bisogno di un impegno severo e di una prospettiva di medio termine. Ma è bene non farsi troppe illusioni. Nelle condizioni in cui siamo, un discorso, sia pure ben costruito, sarebbe importante ma non risolutivo in assenza di una cornice politica soddisfacente. Senza, in altre parole, la garanzia che alle parole seguiranno i fatti grazie alla coesione complessiva delle forze del centrodestra.

Questa certezza non c'è perchè le lacerazioni interne alla coalizione sono tutt'altro che rimarginate. Al contrario, qualcuno sembra già in campagna elettorale, come si è visto ieri quando Umberto Bossi ha insultato i romani. Una provocazione inutile, tipica di chi non si cura troppo di creare difficoltà ai suoi alleati (ad esempio il sindaco Alemanno, che ha sudato sette camicie per ottenere la legge su «Roma capitale») e pensa in modo esclusivo a raccogliere consensi nelle valli del Nord.

Quel che più conta, la fragile tregua seguìta al messaggio «online» di Fini, sabato scorso, resta appesa a un filo sottile. Per due ragioni. La prima è che la campagna sulla famosa casa di Montecarlo sembra destinata a continuare. Il che equivale a un veleno corrosivo che mina alla radice il rapporto tra il gruppo di «Futuro e Libertà» e il resto del Pdl. La seconda è la questione politica rilanciata dai seguaci del presidente della Camera: ottenere una sorta di riconoscimento ufficiale per il nuovo gruppo parlamentare che è quasi un partito. Tale riconoscimento imporrebbe al premier di accettare «Futuro e Libertà» come "terza gamba" della maggioranza, trasformando così la coalizione a due, Berlusconi-Bossi, in una coalizione a tre: Berlusconi-Bossi-Fini.

Ecco allora la richiesta di un vertice fra i soci dell'alleanza che dovrebbe servire a dare pari dignità al terzo soggetto. Ma questo passaggio al momento è del tutto irrealistico.

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Tags Correlati: Berlusconi | Camera | Futuro e Libertà | Governo | Lega | PDL | Umberto Bossi

 

Tanto è vero che il presidente del Consiglio ha rinunciato anche a chiedere il voto di fiducia sul suo discorso programmatico. In tal modo evita di dare visibilità al gruppo finiano che senza dubbio firmerebbe la mozione, e la voterebbe, ma affermerebbe al tempo stesso la propria esistenza autonoma.

Sono misteri procedurali che gli italiani non sono tenuti a comprendere. La sostanza però è chiara. Il Pdl continua a divaricarsi e un patto di legislatura, l'unico in grado di accantonare lo scenario delle elezioni anticipate, è quasi impossibile.

Al tempo stesso un semplice voto di indirizzo, come vuole Berlusconi, non serve a molto. Il presidente del Consiglio lo desidera perché si rende conto che la rinuncia alla fiducia suona come segno di debolezza e verrà interpretata come timore di non raggiungere la fatidica soglia dei 316 voti. Tuttavia il problema rimane. Da un lato si risponde "no" alla richiesta dei finiani, dall'altro si evita di concludere la verifica parlamentare nel più classico dei modi: appunto con un voto di fiducia che a metà legislatura e dopo le polemiche di questi mesi avrebbe un significato inequivocabile.

Il rischio allora è che un'occasione significativa di rilancio per il governo venga compromessa. Si dimostrerebbe così che la matassa è troppo intricata per consentire all'esecutivo un cammino tranquillo nei prossimi due anni e mezzo. Il massimo a cui si può ambire è una tregua più o meno convinta. Una tregua in cui il gruppo dei dissidenti voterà i cinque punti programmatici, ma poi non darà un contributo sostanziale all'attività di un governo di cui non si sente parte integrante. In questo caso è facile prevedere una serie di incidenti di percorso destinati a culminare in uno scontro sanguinoso quando verranno al pettine i nodi cruciali: la riforma della giustizia, lo "scudo giudiziario", forse un nuovo tentativo di controllo delle intercettazioni.

Delle due l'una. O Berlusconi riesce a scindere il drappello di "Futuro e Libertà" e a riportare nel Pdl un certo numero di amici di Fini. Oppure - ipotesi remota - sigla un'intesa forte con il presidente della Camera, accettandone le condizioni. Senza una delle due ipotesi, come è pensabile affrontare gli scogli che si avvicinano? Senza un fatto nuovo il destino della maggioranza sarà quello di vivacchiare per qualche mese, nella crescente insofferenza della Lega, fino all'epilogo e alle probabili elezioni anticipate di primavera. Proprio ciò di cui il paese non ha bisogno: sei mesi di non-governo in cui le principali forze si preparano alla resa dei conti elettorale.

La speranza è invece che a partire da domani la politica trovi un sussulto di dignità. Quella dignità smarrita nelle scomposte polemiche degli ultimi mesi. Ma è una speranza flebile.

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