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Questo articolo è stato pubblicato il 29 settembre 2010 alle ore 08:01.
Di fronte al Cremlino, oltre il fiume, c'è un ponticello dove le coppie appendono lucchetti augurandosi un legame eterno, il ponte si chiama Luzhkov. Non è certo che lo volessero davvero dedicare al sindaco che ha preso per mano Mosca nel lontano 1992 e l'ha guidata fino a ieri, ma ora quelle migliaia di promesse potrebbero assumersi anche il compito di evocare chi per 18 anni è parso rendere possibile ogni cosa in città: cattedrali ricostruite in un soffio, grattacieli, ponti ben più imponenti di questo.
Jurij Luzhkov è stato destituito ieri da un decreto di Dmitrij Medvedev: per molti, una prova di forza e di autonomia di cui il presidente non sarebbe stato capace. Invece la formula, durissima, non lascia alcuna possibilità di appello: «Ho perso la fiducia in Jurij Mikhailovich», ha proclamato il presidente da Shanghai. Non ha neppure atteso il ritorno in patria, non ha messo in programma un incontro per comunicare la decisione all'interessato, come avviene in questi casi. Per Medvedev l'ultima goccia deve essere stato il ritorno del sindaco, lunedì scorso, dalla settimana di pausa concessa dal Cremlino per riflettere sulle dimissioni. Ma rientrando al Mossovet, il Comune moscovita, Luzhkov ha invece portato la sfida all'ultimo: «Non me ne andrò volontariamente», ha chiarito. L'ordine di Medvedev è arrivato il mattino dopo.
Con alle spalle un impero politico e finanziario da lui stesso coltivato dopo il crollo dell'Urss - l'economia di Mosca è un quarto di quella nazionale - Luzhkov ha sempre portato la capitale a sostegno del Cremlino, in tempi di voto: Boris Eltsin, Vladimir Putin. Anche Medvedev, nel 2008, venne eletto con l'aiuto decisivo di Luzhkov, il 75% dei voti di Mosca. Lo scontro è maturato nel momento in cui Luzhkov ha fatto una scelta tra i due membri del tandem. Forse infastidito dalla lotta alla corruzione tentata da Medvedev, o dai suoi richiami al cambiamento: un anno fa il sindaco ha iniziato ad accusarlo di debolezza, invocando il ritorno a un presidente «più autorevole».
Fino a oggi Putin aveva seguito la battaglia in silenzio. Lo ha rotto ieri, commentando la notizia del siluramento di Luzhkov da una città del nord della Russia, Syktyvkar: il presidente, ha detto, ha agito in stretta osservanza di una legge «introdotta dal vostro umile servitore» (così Putin ama definire se stesso nei suoi interventi): la legge elettorale in questione, in vigore dal 2004, rafforza la verticale del potere abolendo l'elezione diretta dei governatori e dei sindaci delle maggiori città, riservandone la nomina o la revoca al presidente, che a quel tempo era Putin. Luzhkov, ha specificato ieri l'attuale premier, non ha intrapreso i passi necessari a normalizzare il rapporto con il presidente: «I rapporti si erano complicati, ma è il sindaco a essere subordinato al presidente, non il contrario», ha detto Putin.