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Riforma a tappe per il patto Ue

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Questo articolo è stato pubblicato il 29 settembre 2010 alle ore 08:00.

Se il nuovo patto "che morde", per dirla con il tedesco Wolfgang Schauble, entrasse in vigore già l'anno prossimo, tra sanzioni automatiche e misure punitive di vario tipo farebbe letteralmente una strage. Nell'area euro. E fuori.
Sui 27 paesi dell'Unione, soltanto tre infatti non sono in deficit eccessivo (sotto il 3%). Tutti quelli dell'euro lo sono, tranne il Lussemburgo. Se si prende il debito, il parametro finora trascurato ma su cui si appunta l'attenzione della riforma in cantiere, le cose vanno un po' meglio ma non troppo. Sono 13 i paesi Ue che non sfondano il tetto del 60%. Di questi solo 4 (Lussemburgo, Finlandia, Slovenia e Slovacchia) sui 16 dell'Unione economica e monetaria. Per intendersi ormai nel gruppo non compaiono soltanto i soliti noti, Italia, Grecia e Belgio. Ci sono anche Francia e Germania.

Per questo, ancora non si è raggiunto un accordo sul nuovo Patto di stabilità e di governance economica eppure già si discute di un periodo di transizione, più o meno lungo, prima di farlo entrare in vigore. «Se tutti violano le regole, automaticamente le sanzioni diventano un'arma spuntata, quasi una burletta» commentava ieri un addetto ai lavori all'indomani della riunione di ministri finanziari della task-force sulla riforma e alla vigilia delle attese proposte che la Commissione Ue presenterà oggi a Bruxelles.
Tra i motivi per diluire nel tempo lo scontro con il nuovo patto non c'è però soltanto il numero esorbitante dei paesi che oggi lo violano. C'è l'obiettiva fatica, anche giuridica, di ristrutturare un edificio che poi sia in grado di stare in piedi invece di crollare addosso a chi l'ha costruito. Esempio: la riforma andrà approvata all'unanimità dei 27 paesi dell'Unione ma avrà regole più stringenti per i paesi dell'euro. Il modello delle due velocità non è nuovo ma sta complicando i negoziati proprio perché la dilatazione degli strumenti sanzionatori da una parte e dall'altra l'allargamento del patto alla dimensione macro-economica non trovano basi giuridiche chiare su cui poggiare. Meglio, le basi ci sono ma solo per il club dell'euro, non per chi sta fuori.
Prendiamo i fondi strutturali europei, una delle nuove armi per rafforzare la disciplina del patto. Per i paesi della moneta unica che non la rispettino è già prevista la sospensione parziale o totale, fino alla cancellazione, dei fondi di coesione. Basta dunque allargarne lo spettro di applicazione e il gioco è fatto. Per i paesi non-euro non ci sono precedenti del genere da sfruttare.

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Tags Correlati: Bce | Bruxelles | Finlandia | Francia | Germania | Italia | Lussemburgo | Slovacchia | Wolfgang Schauble

 

Lo stesso vale per la nuova procedura anti-squilibri macro-economici eccessivi. Nel caso di Eurolandia ci si potrà basare sull'articolo 136 del Trattato. Per il resto dell'Unione si rischia di non poter procedere senza una riforma dei Trattati Ue. Nell'un caso come nell'altro però lo scenario dell'approccio in due tappe promette di accentuare invece di appianare i divari dentro l'Unione e il suo mercato unico, di favorire le divergenze invece che convergenza e integrazione tra i partner. Visto che prossimamente saranno puniti i paesi dagli indicatori di competitività fuori fase, quelli dentro l'euro rischieranno paradossalmente di essere penalizzati a vantaggio di chi non vi partecipa. E così si alimenterebbe disunione invece che coesione europea.
Ci sono però anche altri macigni a ingombrare la strada della riforma. Nel caso del debito, tutti più o meno d'accordo, Italia compresa, sulla necessità di dargli più peso e di stimolarne una discesa più rapida. Sul come farlo invece la partita è tutta aperta. Il gruppo dei rigoristi, capeggiato da Germania e Bce e sostenuto da Olanda e Finlandia, pretende uno schema di riduzione preciso, con obiettivi temporali dettagliati. Si scontra però con quello formato da Italia, Francia, Belgio, Slovacchia, Spagna, Portogallo, pronto a impegnarsi sì ma senza farsi ingabbiare in meccanismi inflessibili.
Anche sugli automatismi sanzionatori c'è disaccordo. La Francia insiste perché i governi e non i tecnici abbiano l'ultima parola. Dunque boccia, come altri paesi tra cui l'Italia, il sistema della maggioranza qualificata "rovesciata" per bloccare le punizioni. Preferirebbe mantenere il normale meccanismo di voto o al limite la maggioranza semplice "rovesciata".

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