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Correa salvato dall'esercito

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Questo articolo è stato pubblicato il 02 ottobre 2010 alle ore 08:02.

Il presidente Rafael Correa è tornato in sella, golpe sventato. L'Ecuador del giorno-dopo è un paese che ritrova la calma e annuncia fermezza: «Non ci sarà né perdono né oblio», ha dichiarato Correa dal palazzo presidenziale. Il tono è fermo, le parole scandite. «Tutti coloro che hanno disonorato l'uniforme della polizia e ci hanno fatto passare per una repubblica da operetta, saranno puniti».
Non è il Correa di giovedì, il presidente teatrale che di fronte a una manifestazione di qualche migliaia di poliziotti, organizzata contro la decisione del governo di tagliare stipendi e scatti di carriera, si allentava la cravatta e urlava: «Sono qui, uccidetemi se avete coraggio, avanti fatelo».
Non è neanche il Correa che in campagna elettorale, tre anni fa, si sfilava la cintura dei pantaloni - che in spagnolo si chiama appunto correa - e la faceva roteare in aria per le strade di Quito. No, è un presidente composto e istituzionale, con tanto di fascia tricolore sul petto. I toni sono quelli pacati dell'economista brillante, laureato a Lovanio, in Belgio, e specializzato negli Stati Uniti. Ha conseguito un Phd all'Universitá dell'Illinois anche se poi la politica economica del suo governo è stata più vicina a quella di Chavez e di Evo Morales che a quella studiata sui libri americani.
La protesta della polizia, degenerata in scontri, disordini e saccheggi è costata tre morti e 70 feriti. Pare, secondo le ricostruzioni, che l'ordine istituzionale sia stato ritrovato grazie all'intervento dell'esercito, fedele al presidente. Il giovedì nero dell'Ecuador ha ricordato i momenti più bui dei governi latinoamericani del secolo scorso, gli anni in cui i governi eletti democraticamente venivano rovesciati dai golpisti.
Il mea culpa del capo della polizia nazionale, Freddy Martinez, è solo un primo passo nell'accertamento delle responsabilità. Lo stesso Martinez ieri ha dichiarato che «un comandante che non viene rispettato, anzi viene aggredito dai suoi subalterni non può continuare a guidarli». Anche se poi ha stemperato l'attacco ai suoi colleghi aggiungendo che «avevano il diritto di protestare ma hanno scelto la strada sbagliata». E per questo ha chiesto di nuovo al governo di «riesaminare la legge organica dei dipendenti pubblici, una legge discussa che ha provocato questa serie di reazioni spropositate, affinché non siano intaccati i diritti dei poliziotti».

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Tags Correlati: Ecuador | Evo Morales | Fabian Alarcon | Freddy Martinez | Hugo Chavez | Jamil Mahuad | Lucio Gutierrez | Politica | Quito | Rafael Correa | Stati Uniti d'America

 

Per alcune ore, nella giornata di giovedì, i golpisti sono sembrati vicini alla presa del controllo del paese: hanno occupato alcune caserme, aggredito il capo di stato e circondato l'ospedale in cui era stato ricoverato Correa, preso il controllo del principale aeroporto di Quito e di alcune emittenti televisive.
La loro azione si è scontrata però con la reazione popolare e con quella dei militari dell'esercito. Anche Twitter ha fatto la sua parte: il presidente amico Hugo Chavez ha lanciato in rete un messaggio che pareva una vera e propria mobilitazione a supporto di Correa.
Uno strumento, quello della mobilitazione tecnologica, che Chavez ricordava bene: nel golpe che lo aveva destituito per 48 ore, nel 2002, gli sms avevano avuto un ruolo importante: gran parte dei supporter del presidente venezuelano si erano scambiati messaggi e poi dati appuntamento davanti al palazzo presidenziale. Una forza d'urto che aveva contribuito a sconfiggere i golpisti.
Intanto nelle ultime ore si aggiungono particolari importanti per capire se la protesta dei poliziotti sia stata strumentalizzata da forze oppositrici: pare di sí, a quanto risulta dalle dichiarazioni dello stesso Martinez. Sarebbero infatti coinvolti degli "infiltrati" che avevano l'obiettivo di destabilizzare il governo del presidente.
Tra i golpisti, secondo i media ecuadoriani, compare senz'altro l'ex presidente Lucio Gutierrez, destituito nel 2005 dopo un mandato disastroso.
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