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Questo articolo è stato pubblicato il 05 ottobre 2010 alle ore 21:15.
Provate a immaginare una grande base statunitense o della Nato in Afghanistan, vere e proprie città come quelle sorte all'aeroporto di Kandahar e di Herat, senza i monotoni e costanti rumori dei generatori elettrici alimentati a nafta che, in azione 24 ore al giorno, consentono di illuminare, riscaldare, rinfrescare e rendere funzionali uffici, alloggi, comandi e officine. Basi nelle quali l'aria non sia più costantemente appestata dal fumo e dall'odore acre della nafta bruciata.
Il Pentagono sta valutando l'utilizzo di nuove tecnologie in grado di produrre energia da fonti rinnovabili per sostenere le operazioni belliche. Dopo le guerre "politicamente corrette" avremo anche quelle improntate al rispetto per l'ambiente? Può darsi, ma a spingere le forze armate statunitensi verso questa svolta "verde" sono ragioni finanziarie e operative, come racconta Elisabeth Rosenthal sul New York Times.
Rifornire i reparti schierati oltremare di carburante ha costi sempre più alti, non solo per il prezzo dei combustibili ma per le difficoltà logistiche legate a far transitare e scortare convogli di cisterne in aree spesso minacciate da miliziani e banditi. Il costo di gallone di benzina, che il Pentagono paga un dollaro, può salire fino a 400 per farlo arrivare negli avamposti afghani più remoti. In Iraq e oggi in Afghanistan solo per la protezione dei convogli sono stati pagati miliardi di dollari all'anno a società di sicurezza private. Secondo uno studio dell'Us Army muore almeno un soldato o un contractor civile per ogni 24 convogli di carburante. L operazioni in paesi privi di sbocchi al mare, come l'Afghanistan, aumentano costi e difficoltà e rendono le forze alleate vulnerabili anche sul piano strategico. Basti vedere gli effetti del blocco imposto ormai da una settimana dal governo pakistano al transito dei camion di rifornimenti (incluse le autocisterne) diretti alle basi alleate in Afghanistan.
Una "rappresaglia" per gli sconfinamenti delle truppe della Nato che colpiscono i talebani anche nell'Area Tribale pakistana. L'impiego su vasta scala di fonti di energia rinnovabile ridurrebbe la necessità di carburante di origine fossile alle sole esigenza di alimentazione dei mezzi, quantità certo considerevoli ma assai inferiori a quelle richieste oggi per sostenere basi che ospitano complessivamente 150 mila militari e decine di migliaia di contractors. I 150 marines della Compagnia I, Terzo battaglione del Quinto reggimento sono arrivati da pochi giorni nella provincia afghana di Helmand equipaggiati con nuovi materiali per attrezzare un accampamento a basso impatto ambientale: pannelli solari portatili, luci a consumo ridotto, tende che forniscono energia elettrica, batterie solari per i computer e altri mezzi di comunicazione. Al momento si tratta di un test operativo per valutare prestazioni ed efficacia degli equipaggiamenti ma il Pentagono è pronto a finanziarie l'acquisto di dotazioni simili per altri reparti di marines. Il colonnello Robert Charette Jr, direttore dell'Energy Office del Corpo dei Marines, si è dichiarato «cautamente ottimista» circa l'esito dei test degli equipaggiamenti sperimentali della Compagnia I, costati circa 70 mila dollari e provati durante l'estate in un'area addestrativa nel deserto del Mojave.«Vi sono molte ragioni per rivolgersi alle energie verdi ma la principale è che è più pratico», afferma Ray Mabus, segretario alla Marina che punta a dotare Us Navy e Corpo dei Marines di sistemi d'energia da fonti rinnovabili in grado di coprire la metà del fabbisogno entro il 2020.