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Questo articolo è stato pubblicato il 09 ottobre 2010 alle ore 14:58.
Pubblichiamo uno stralcio dell'intervento che Liu Xiaobo ha pronunciato il 23 dicembre 2009, nel corso del processo, in cui doveva rispondere di «incitamento a sovvertire il potere dello stato». Gli avvocati hanno avuto venti minuti per la loro arringa, in un processo che è durato meno di tre ore. Il testo uscirà a novembre sulla rivista Lo Straniero.
Giugno 1989 è stato un momento di svolta nella mia vita. La carriera universitaria ha seguito un corso normale; dopo la laurea sono rimasto all'università di Pechino.
In cattedra, ero un insegnate benvoluto ed ero un intellettuale pubblico. Negli anni Ottanta, ho pubblicato articoli e libri, sono stato invitato a conferenze e corsi anche in America e Europa. La mia regola di vita era di comportarmi con onestà, senso di responsabilità e dignità.
Poi, tornato in Cina per prendere parte al movimento dell'89, fui imprigionato per "propaganda controrivoluzionaria e incitazione al crimine". Non avrei più potuto pubblicare o fare conferenze in Cina. Per aver espresso opinioni politiche diverse e aver preso parte a un movimento pacifico e democratico, un insegnante perde la cattedra, uno scrittore perde il diritto di pubblicare e un intellettuale la possibilità di parlare in pubblico: questo è triste, non solo per me, ma per la Cina, dopo trent'anni di riforme.
Le esperienze più drammatiche della mia vita dopo il 4 giugno hanno a che fare con i tribunali. Le due occasioni che ho avuto di esprimermi in pubblico mi sono state fornite dal tribunale di Pechino, una nel gennaio 1991 e una ora. Capi d'accusa identici: reati d'opinione.
Le anime del 4 giugno non riposano ancora in pace. Dopo essere uscito dalla prigione di Qincheng nel 1991, ho perso il diritto di parola nel mio paese e mi sono potuto esprimere solo coi media stranieri. Sono stato agli arresti domiciliari (maggio 1995-gennaio 1996), mandato in un campo di rieducazione attraverso il lavoro (ottobre 1996-ottobre 1999) e oggi sono processato dai miei nemici.
Ripeto quanto avevo detto venti anni fa nella "Dichiarazione per il secondo sciopero della fame del 2 giugno": non ho nemici, non provo odio. Nessuno dei poliziotti che mi hanno tenuto sotto sorveglianza, arrestato, interrogato, nessuno dei procuratori che mi hanno perseguito, nessuno dei giudici che mi hanno condannato è un mio nemico. Anche se non posso accettare i vostri arresti e le vostre condanne, rispetto le vostre professioni e personalità.