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Commenti e Inchieste

Quando gli italiani danno il meglio di sé

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Questo articolo è stato pubblicato il 10 ottobre 2010 alle ore 15:06.
L'ultima modifica è del 10 ottobre 2010 alle ore 15:13.

Una sera d'estate in una terrazza romana a parlare con un amico, capitano di ritorno dall'Afghanistan: la moglie aspetta un bambino e lui ha rinunciato a tutte le ferie intermedie per poter rientrare con un mese di anticipo e assistere alla nascita del figlio. Negli occhi il cielo di Kabul, quello vero, più intenso di quello che abbiamo vagheggiato inseguendo con la fantasia «il cacciatore di aquiloni».


Si capisce subito che ripartirebbe domani. Per guadagnare di più? Sono 100 dollari al giorno in busta paga, una settantina di euro, chi pensa che questo sia il motivo che spinge un ufficiale di trentacinque anni a partire e a rischiare di morire è uno sciocco. Si parte per fare al meglio il proprio lavoro, per vivere un'esperienza irripetibile, per incrociare mondi che non avresti mai pensato di conoscere, per sentirsi utili, per provare emozioni, per vivere la speranza di ritornare, per stare nel cuore della storia. Si parte perché si è un soldato dell'esercito italiano, che preferisce vivere sei mesi a Kabul che non passare carte a Roma.

In Afghanistan ha lavorato all'Isaf. Ogni mattina usciva armato e col giubbotto antiproiettile per incontrare i rappresentanti delle tribù locali e organizzare con loro l'amministrazione della giustizia, l'approvvigionamento idrico, l'istruzione, la sanità, la ricostruzione. Appena arrivato rimase impressionato dal discorso che gli fece un sergente inglese prima di affrontare il viaggio dall'aeroporto alla cittadella fortificata della Nato dove avrebbe vissuto in quei mesi: «Ci possono attaccare in ogni momento, se i tuoi compagni di viaggio morissero, tu dovrai comportarti in questo modo». Si guardarono tutti negli occhi e scoprirono di provenire da ogni parte del mondo. Gli affetti di ciascuno divennero improvvisamente lontani, il rimpianto per la quiete ministeriale pure: hai paura, ma sei in ballo e che Dio te la mandi buona. Lo pensò lui, lo pensarono gli altri e partirono in colonna con il dito tremante sul grilletto.

La situazione è complicata come in tutti i luoghi ove pulsano la guerra e la storia: il controllo del territorio è a macchia di leopardo, la corruzione è dilagante, ci sono zone tranquille e altre in mano ai talebani che avanzano. Rispetto agli schemi imparati a scuola ha capito che è necessario ripristinare e rispettare un tessuto tribale locale, l'unico riconosciuto dagli abitanti; un impasto di vita e di saggezza millenarie, fatto di anziani e capi tribù, la sola sovranità legittimata che la guerra ha lacerato nel tentativo di forzarla dall'esterno pensando di creare sulla carta uno Stato con una logica e una struttura occidentali.

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Tags Correlati: David Petraeus | Italia | Kabul | Nato | Politica |

 

Lo ascolto e penso a quanto siano lontani gli stereotipi in cui siamo cresciuti: l'Italia dei marmittoni, della leva obbligatoria, dei modi escogitati per evitarla. Forse è vero quello che si dice: il soldato italiano quando è all'estero offre il meglio di sé perché nello zaino si porta dentro oltre duemila anni di storia. E sì, perché c'è anche dell'orgoglio patriottico che condividiamo: lì a Kabul ci sono eserciti Nato di tutti i paesi del mondo, ma noi siamo considerati fra i migliori, i più efficaci, stimati, flessibili, rispettati. Il generale David Petraeus sa bene che degli italiani può fidarsi.

Nessuno sa se e quando lasceremo l'Afghanistan, è divisa perfino la Casa Bianca, ma una cosa è certa: se andare via significherà abbandonare quel paese nelle mani talebane, sarà la peggiore delle sconfitte.


Pensavo a quella sera di agosto quando ho appreso la notizia della morte di quattro soldati italiani e del ferimento di altri due. Vedo i loro volti tranquilli di ragazzi, lo sguardo pulito, scopro dove sono nati questi «caporal maggiori» di vent'anni: Lentini, Gagliano del Capo, Pescina, Aradeo, Alghero, Pisa. Una geografia di centro-sud, abitata da campanili sconosciuti, di cui ci accorgiamo solo tra un morto e l'altro. Che sia un'alluvione, una vittima della camorra o della mafia, un militare in missione. E per contrasto il pensiero corre all'Italia di oggi e agli spettacoli indecorosi cui siamo costretti ad assistere da ormai troppo tempo con un misto di assuefazione e di apatia, animati da «astratti furori» e da un sentimento di «quiete nella non speranza» che dominano le nostre incivili conversazioni: alle volgarità e alle ipocrisie populiste, alle bombe di carta e di veleno di questi mesi, lanciate a orologeria agli ordini per interessi di parte.

Ci sono poi le bombe vere, che irrompono tra le cronache di ricatti e irresponsabilità e colpiscono l'Italia silenziosa e migliore. Da una parte lo svilimento, dall'altro la necessità di dare speranza e riscatto al presente e al futuro di questo paese. Da una parte la politica che ha perduto ogni ideale, dall'altra gli alpini caduti a Farah. Non è difficile decidere qual è la parte giusta.
miguel.gotor@unito.it

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