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Questo articolo è stato pubblicato il 11 ottobre 2010 alle ore 08:16.
Le cause di lavoro rischiano di perdere definitivamente il treno della conciliazione. Con l'imminente approvazione del collegato lavoro, il parlamento sembra aver messo la pietra tombale sulla composizione amichevole delle liti tra imprese e dipendenti, perché il tentativo di trovare un accordo da obbligatorio diventa facoltativo. È pur vero che finora l'obbligatorietà non ha portato grandi risultati. Secondo le stime più recenti, solo una conciliazione su cinque va a buon fine ed esce così dal circuito della giustizia ordinaria. Numeri non esaltanti, ma che comunque si traducono in un taglio del 20% delle cause di lavoro, quello che è probabilmente il più aspro fra i contenziosi che finiscono in tribunale.
Sarà per l'importanza della posta in gioco, o per un tasso di litigiosità che non ha eguali al mondo, oppure per un quadro normativo scivoloso. Sta di fatto che quando in ballo c'è una questione di lavoro, le parti sembrano pensare a tutto tranne che a cedere di un millimetro dalle proprie posizioni. Lo dimostra l'elevato tasso di ricorsi in appello contro le decisioni di primo grado. Un altro dei record della nostra giustizia malandata: un quarto delle sentenze emesse dai tribunali in materia di lavoro finisce dritto in corte d'appello, uffici non a caso con le performance peggiori quanto a velocità di smaltimento. Addirittura le cause di lavoro, pubblico e non, e di previdenza rappresentano il 40% dell'intera attività dei giudici di secondo grado.
L'unica chance di chiudere la vertenza fuori dalle aule di giustizia sembra essere allora quella affidata al braccio di ferro che si consumerà all'inizio del rapporto. Quando il datore di lavoro sottoporrà la clausola compromissoria al dipendente, che lo impegnerà ad affidarsi a un arbitrato nel caso dovesse insorgere qualche problema. Con l'eccezione dei contrasti più gravi legati al licenziamento.
«C'è un paradosso – mette in guardia Riccardo Del Punta, avvocato giuslavorista e docente di diritto del lavoro all'università di Firenze –: questa misura è voluta per rimediare alle lentezze della giustizia che danneggiano sì le imprese, ma che colpiscono ancora di più i lavoratori. I quali dovrebbero essere i protagonisti di questa iniziativa. Eppure è difficile immaginare che proprio i lavoratori si rivolgeranno agli arbitri per due motivi: perché hanno una fiducia incondizionata nei giudici e perché di fatto sono abituati a non pagare per la causa, anche per la prassi diffusa di compensare le spese pure nel caso di soccombenza. Il ricorso all'arbitro è costoso, questo è innegabile. Il fatto di dover versare il 2% del valore della causa al presidente del collegio arbitrale prima dell'inizio della causa, con assegni circolari, può scoraggiare i lavoratori».