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Questo articolo è stato pubblicato il 13 ottobre 2010 alle ore 08:03.
BELGRADO. Dal nostro inviato
Cekamo vas, vi aspettiamo. Questa scritta a caratteri cubitali sui muri di Belgrado, accompagnata da gocce di sangue disegnate con la vernice rossa, forse non è sfuggita neppure a Hillary Clinton quando il segretario di stato americano ha attraversato ieri, per la prima volta, il ponte sulla Sava, alla confluenza con il Danubio, dove la Pannonia incontra i Balcani. Una minaccia che non aveva niente di vago: domenica scorsa i gruppi dell'estrema destra nazionalista e gli hooligans serbi (che hanno una matrice comune con gli agitatori ieri in azione allo stadio di Genova) hanno messo a ferro e fuoco la capitale per dimostrare contro il Gay Pride. Un pessimo segnale di intolleranza per un paese che il 25 ottobre punta a diventare candidato all'ingresso nell'Unione.
Ma la signora Clinton ha lodato l'impegno delle forze di polizia e il presidente Boris Tadic: «Nessuno - ha detto - ha fatto tanti sforzi come la Serbia e i suoi leader per avvicinarsi all'Europa». Washington sostiene le aspirazioni europee di Belgrado, che dopo anni di revanscismo ha accettato il dialogo con il Kosovo e aspetta il momento giusto, cioè una consistente contropartita politica, per arrestare Ratko Mladic, il generale che massacrò 8mila musulmani a Srebrenica nel '95.
"La Serbia verso l'Unione, una partnership strategica con l'Italia", è anche il titolo di un convegno organizzato oggi all'Hotel Hyatt dall'Ipalmo, con la partecipazione del sottosegretario agli Esteri Alfredo Mantica, che avrebbe dovuto precedere la visita, poi annullata, del presidente del consiglio Berlusconi. Questa volta l'aggettivo incollato all'incontro non è esagerato: Fiat, Eni, e un domani Finmeccanica, hanno in Serbia un ruolo cruciale, senza trascurare il business di centinaia di piccole e medie imprese del nord-est. Con l'investimento della Fiat nella ex Zastava, la storica fabbrica di Kragujevac, la Serbia potrebbe produrre in un paio d'anni oltre 200mila auto ed esportare veicoli per un valore di 1,3 miliardi di euro l'anno, circa il 20% del totale dell'export di Belgrado nel 2009. Dieci anni dopo la caduta di Milosevic, il 5 ottobre 2000, questa notizia è una delle più attese da un paese con un tasso di disoccupazione del 30% e una forza lavoro che costa quasi la metà di quella polacca.