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Questo articolo è stato pubblicato il 13 ottobre 2010 alle ore 08:56.
L'ultima modifica è del 13 ottobre 2010 alle ore 08:04.
Nonostante la soddisfazione espressa dal vertice del Pdl, è difficile credere che Napolitano abbia sostenuto ieri sulla durata dei processi le stesse tesi del presidente del Consiglio. Il richiamo del Quirinale è alla lunghezza abnorme dei procedimenti e all'impossibilità per il cittadino di veder riconosciuti i propri diritti. Quindi il sollecito è alla politica affinché affronti la riforma della giustizia nella sua globalità, con l'obiettivo di restituire efficacia alla macchina giudiziaria.
Il punto di vista di Berlusconi è diverso, o almeno tale appare. L'insistenza sul «processo breve», da conseguire con un dispositivo di legge ad hoc, rischia di compromettere un numero esorbitante di processi in corso e su questo la polemica è nota. Quel che è peggio, Berlusconi dà sempre l'impressione di avere in mente solo il suo caso personale (il processo Mills) e di cercare la «brevità» per trovare la prescrizione.
I due approcci sono quindi opposti. Il capo dello Stato ricorda alla politica che esistono solo i problemi generali, collettivi, e che le riforme devono essere concepite a vantaggio dei cittadini. Il premier, viceversa, quando si tratta di giustizia non riesce a sollevarsi al di sopra della mischia. Così facendo, toglie credibilità ai suoi stessi progetti riformatori: il che spiega perché da anni il governo non riesce ad affrontare i problemi di fondo della giustizia, riproposti con enfasi ancora pochi giorni fa nel discorso programmatico in Parlamento.
Ma la sensazione è di un motore che gira sempre a vuoto, nonostante lo sforzo personale del ministro Alfano. E infatti sul nervo dolente della giustizia martella il presidente della Camera, dichiarando alla stampa estera, con tono persino provocatorio, che su questo terreno «il governo può davvero cadere».
E così il cerchio si chiude. Da un lato Napolitano ricorda quale sia la responsabilità della politica – e dunque in primo luogo del governo – di fronte all'inefficienza della macchina giudiziaria. Dall'altro Fini conferma che la giustizia è oggi soprattutto un nodo irrisolto, una ferita che lacera la maggioranza. E che il governo rischia di dissolversi a meno di non voler stabilire una netta distinzione tra lo «scudo» posto a salvaguardia del premier, per proteggerlo dai processi nel corso del mandato, e la prospettiva di una riforma che deve corrispondere all'interesse generale. L'intreccio tra questi due piani può essere distruttivo.