Storia dell'articolo
Chiudi
Questo articolo è stato pubblicato il 19 ottobre 2010 alle ore 06:39.
MILANO
A San Fruttuoso, quartiere periferico e residenziale di Monza, ieri la memoria è andata a San Giuseppe Jato.
A pochi chilometri da Palermo l'11 gennaio 1996, dopo due anni di agonia, venne sciolto nell'acido Giuseppe Di Matteo, figlio undicenne di Santino, pentito di Cosa Nostra. Questa volta, dall'altra parte dell'Italia, in una Lombardia che troppo a lungo ha creduto di essere immune alle dinamiche mafiose, a essere uccisa, sciolta nell'acido e poi sepolta in un terreno di Monza, sarebbe stata una testimone calabrese di giustizia, Lea Garofalo, di cui si erano perse le tracce da quasi un anno.
Colpa più grande non poteva avere agli occhi della 'ndrangheta: con le sue "cantate" aveva inguaiato Carlo Cosco e persone a lui vicine e a nulla è servito che quell'uomo fosse anche il padre di sua figlia. Se a uccidere il piccolo Di Matteo fu Giovanni Brusca, mafioso corleonese e controverso collaboratore, a ordinare l'omicidio della trentaseienne crotonese di Petilia Policastro, sembrerebbe essere stato proprio l'ex compagno che, il 20 novembre 2009, la fece rapire in pieno centro a Milano dove era riuscita a richiamarla per farla incontrare con la figlia.
Almeno questa è la ricostruzione che si legge nell'ordinanza di custodia cautelare in carcere emessa ieri dal gip milanese Giuseppe Gennari su richiesta dei pm Alberto Nobili, Marcello Tatangelo e Letizia Mannella a carico di sei persone ritenute responsabili del sequestro e dell'omicidio della donna. «Le ragioni alla base dell'eliminazione della donna - si legge - risiedono nel contenuto delle dichiarazioni fatte ai magistrati con particolare riferimento all'omicidio di Antonio Combierati elemento di spicco della criminalità calabrese». La collaboratrice di giustizia aveva dichiarato agli inquirenti che il responsabile dell'omicidio di Combierati era il suo ex fidanzato Carlo Cosco, che è destinatario dell'ordine di custodia cautelare insieme ad altre 5 persone (tra le quali due suoi fratelli). Cosco era già in carcere così come Massimo Sabatino, che il 5 maggio 2009 provò già una volta a rapire Lea Garofalo a Campobasso, dove all'epoca risiedeva con la figlia. Sarebbe stato proprio Sabatino a confessare la dinamica degli eventi ad un compagno di cella.