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Questo articolo è stato pubblicato il 21 ottobre 2010 alle ore 06:37.
Le politiche costano. Anche quelle, gravide di benefici, contro la crisi. In Europa il prezzo è la crescita bassa: il Fondo monetario internazionale nel suo outlook regionale prevede così per il continente (comprese Turchia e Israele) un buon 4,8% quest'anno (+4,2% nel 2011) che scende però a un più modesto +1,7% (+1,6% nel 2011) per le sue economie avanzate e a un misero 1%, per quest'anno e il prossimo, in Italia.
La crisi che continua a pesare, dopo la contrazione del 2008-2009, in modo però del tutto nuovo. Ora sono le contromisure, e le loro conseguenze, a chiedere il conto. A cominciare dai nuovi requisiti di capitale bancario: le piccole aziende che non hanno accesso ai finanziamenti con obbligazioni - spiega l'Fmi, che evoca apertamente il credit crunch - potrebbero trovarsi in difficoltà sul mercato del credito. Anche perché le banche europee sono piene di titoli di stato, e i timori sulla tenuta dei conti pubblici si riflettono sul settore finanziario.
Sono così i debiti degli stati al centro dell'attenzione. L'Fmi sa bene che «l'attuale volontà dei governi di sostenere la ripresa con deficit più alti è ancora un ingrediente importante della ripresa», destinata quindi a rallentare. Ormai, però, «è proprio la paura che i debiti crescenti possano rendere insostenibili le finanze pubbliche a mettere a rischio la ripresa». Le politiche di rigore dovranno allora «essere disegnate per minimizzare l'impatto negativo su crescita e disoccupazione».
Come? Bisognerebbe - spiega - «evitare di ridurre gli investimenti, compresi quelli nell'istruzione, e focalizzarsi sui sussidi distorsivi, cercando d'indirizzare meglio le spese sociali». Occorre anche sottrarsi alla tentazione di ricorrere ancora a disavanzi disordinati: per la Ue l'Fmi propone allora - senza preoccuparsi troppo dei problemi di rappresentanza politica - uno «spostamento dell'autorità al centro» e un budget centrale da finanziare con una carbon tax o un'Iva più elevata.
In ogni caso non basterà. L'Europa deve rendere più flessibili le sue economie. Il beneficio, secondo l'Fmi, è notevole: mezzo punto percentuale di crescita in più ogni anno nel periodo 2011-2015, senza contare la riduzione degli squilibri, anche quelli commerciali. Non si tratta però della sola liberalizzazione del lavoro, per il quale l'Fmi chiede anche politiche attive e una maggiore "portabilità" delle pensioni. Serve concorrenza anche nei mercati di prodotti e servizi. «Per esempio - spiega il Fondo - abolire i privilegi delle professioni protette nei servizi e le restanti rigidità nei settori di produzione avrà un impatto maggiore sull'occupazione se accompagnata da un'offerta flessibile di lavoro sostenuta da protezioni adeguate e non eccessive». Senza contare, occorre aggiungere, che vale anche il contrario: non ha senso liberalizzare il lavoro se le aziende non trovano nella concorrenza la disciplina necessaria per aumentare produttività, occupazione e salari.