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Questo articolo è stato pubblicato il 21 ottobre 2010 alle ore 09:08.
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Le aspettative erano enormi, dopo mesi di illazioni. E il 27 gennaio 2010, Steve Jobs saliva sul palco per presentare il suo tablet. «Cambiamo il mondo ancora una volta» disse. «L'iPad è magico» vantò: magnifico per consultare il web, ottimo per la posta e i social network, ambizioso (forse troppo) come alternativa al Kindle per leggere i libri digitali e capace di far girare programmi simili a quelli che avevano reso l'iPhone, il telefonino della Apple, così diverso e attraente.
Ma nel pubblico, c'erano alcuni occhi persino più attenti degli altri: quelli degli editori di giornali, interessati a capire se davvero il tablet sarebbe stato l'occasione per avviare una nuova stagione nel loro business. Ascoltavano e cercavano di comprendere dove fosse il loro posto, tra giochi e libri, programmi per scrivere e musica. L'iPad era una porta d'accesso all'iTunes, il negozio di brani musicali e film, si candidava a vendere videogiochi, diventava anche la vetrina di una libreria. Ma non aveva un'edicola. Il suggerimento implicito di Jobs era chiaro: i giornali sono applicazioni. E si vendono come il resto del software, nell'App Store.
Insomma: in questo contesto, le cui regole sono dettate da chi lo ha disegnato, i giornali sono applicazioni nel senso che diventano software per organizzare l'informazione, in modo il più possibile piacevole, comodo, interattivo, focalizzato sulla fruizione. Il successo dell'iPad – nell'ultimo trimestre ne sono stati venduti 4,19 milioni, contro i 3,89 milioni di Mac, il prodotto tradizionale della Apple – ha trascinato nella corsa alla replica decine di altre aziende. Google, Rim e Microsoft hanno sistemi operativi alternativi e molte aziende lanciano nuovi tablet. Si direbbe che l'idea abbia attecchito.