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La terza Intifada si fa con il sesamo

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Questo articolo è stato pubblicato il 22 ottobre 2010 alle ore 06:38.


RAMALLAH. Dal nostro inviato
«Cittadini di Gerusalemme! Svegliatevi, comprate beni e servizi dalle imprese di Giudea e Samaria, non dalle città palestinesi! Al terrorismo economico dobbiamo rispondere per le rime con un contro boicottaggio!», esorta Benny Kashriel, sindaco di Maale Adumim, il più grande insediamento fuori Gerusalemme, alle spalle del monte degli Ulivi.
L'eccesso di punti esclamativi nel suo manifesto "Alla cittadinanza della Grande Gerusalemme" è il segnale di una preoccupazione seria: la terza Intifada palestinese è già iniziata. Questa volta niente bombe né kamikaze ma un libretto intitolato "Guida al combattimento contro i prodotti degli insediamenti". In copertina un dito puntato verso il lettore ammonisce: "La tua coscienza, la tua scelta". L'iniziativa di boicottare tutto ciò che viene prodotto nelle colonie ebraiche dei territori occupati, era nata un anno fa come esperimento. Ora c'è una legge firmata da Abu Mazen che bandisce quei beni dagli scaffali dei mercati e dalle tavole dei palestinesi; c'è una lista illustrata dalla guida con foto e marchi di 500 prodotti e di tutte le imprese che operano fuori dai confini d'Israele, in Cisgiordania che per Israele è Giudea e Samaria; ci sono 13 imprese che hanno deciso di lasciare gli insediamenti dove avevano trasferito la produzione per ottenere esenzioni fiscali, e tornare in Israele per non perdere quote di mercato.
Delle altre Intifada si occupavano le forze armate, di questa la Confindustria israeliana. «Separiamo la politica dall'economia», ha chiesto il suo presidente Shraga Brosh, ai colleghi palestinesi. «È impossibile. Noi facciamo una controproposta: separiamoci politicamente e avviamo una grande cooperazione economica», dice Abdel Hafez Nofal, 56 anni, vice ministro palestinese dell'Economia. "Mister Boycott" è lui. «Tutto è incominciato quando il ministro del Commercio inglese mi disse: "Noi abbiamo deciso di boicottare i prodotti delle colonie. E voi?" Eravamo in una situazione nella quale Ue e paesi arabi compravano i prodotti degli insediamenti e contemporaneamente aiutavano noi. Noi stessi lottavamo per la nostra indipendenza e ogni giorno nei nostri negozi compravamo la loro merce».

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Tags Correlati: Abdel Hafez Nofal | Abu Mazen | Barack Obama | Benny Kashriel | Cisgiordania | Confindustria | Forze Armate | Gerusalemme | Giudea | Israele Intanto | Peace Now | Samaria | Shraga Brosh | Yaakov Malach

 

Il lungo esilio a Tunisi, il ritorno con Arafat, la seconda Intifada e la certezza che quella lotta violenta, iniziata nel 2000 dopo il fallimento della trattativa di Camp David, sia stata un disastro da non ripetere. Nessuno può garantire contro un'altra ribellione armata, se fallisse anche il tentativo di pace di Barack Obama. «Ma sono convinto», dice Nofal, «che quella economica sia un'arma infinitamente più efficace delle altre. Sia chiaro: il nostro non è un boicottaggio a Israele. Il nostro interscambio è di 5 miliardi di dollari l'anno: noi esportiamo per 700 milioni e importiamo per 4 miliardi. La quota delle colonie è di 300 milioni. Economicamente non è essenziale, per noi è una questione di dignità».
Unità speciali del ministero dell'Economia perquisiscono i nuovi grandi shopping malls nelle città palestinesi a caccia dei prodotti boicottati. Gli imprenditori privati hanno creato col governo dell'Autorità palestinese un "Fondo della Dignità" di 2,5 milioni di dollari per alleviare i contraccolpi economici e occupazionali del boicottaggio. «Non è facile distinguere un prodotto delle colonie da uno israeliano. E sappiamo bene che per molti palestinesi è difficile trovare un'alternativa al lavoro negli insediamenti», dice Nofal. In questi giorni uno dei segni della fine del congelamento dei cantieri (sarebbero già circa 600 le costruzioni avviate dal 26 settembre, secondo il movimento Peace Now) sono le file di operai palestinesi davanti alle colonie, ogni mattina all'alba. «Ma dove possiamo, agiamo. Per il momento questo basta alla nostra dignità».
Senza spari né vittime, questa terza Intifada economica già lascia dei segni nella parte israeliana. «Oggi non c'è una sola fabbrica di Barkan che non cerchi una ricollocazione alternativa dentro Israele», ammette Yaakov Malach, amministratore delegato di Achva, uno dei principali produttori mondiali di tahina, la pasta di sesamo. Barkan è un insediamento nel nord della Cisgiordania e un parco industriale che aveva attratto molte imprese israeliane. Il 25% della produzione di Achva viene esportato in Europa e sul mercato palestinese, uno dei principali consumatori di tahina. «La situazione si sta facendo sempre più complicata perché il boicottaggio condiziona anche i nostri clienti all'estero».
«È esattamente quello che volevamo», conclude Abdel Hafez Nofal. «Ma non ne siamo felici. La nostra è una piccola economia sotto occupazione che dipende dagli israeliani. Se solo le cose fossero normali, firmeremmo con loro un accordo di cooperazione economica anche domani. A noi è questo che serve, non un'altra Intifada».
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