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Questo articolo è stato pubblicato il 23 ottobre 2010 alle ore 06:37.
GYEONGJU. Dal nostro inviato
L'Asia lo ha creato, l'Asia può distruggerlo.
Fu dopo la crisi asiatica degli anni 90, che aveva contagiato altre aree dell'economia mondiale, che apparve chiaro a tutti che a problemi globali dovevano corrispondere soluzioni globali e che queste non potevano essere trovare senza la partecipazione almeno delle nuove potenze emergenti: quelle che poi sarebbero state battezzate Bric (Brasile, Russia, India, Cina) e alcune altre, selezionate più che altro sulla base delle ragioni della geopolitica vista da Washington. Al vecchio club dei paesi industriali, il G-7, che aveva funzionato bene o male per un quarto di secolo, si affiancò allora il G-20.
Per quasi un decennio rimase in sonno, con riunioni di basso profilo, spesso sdegnate dai ministri e frequentate solo dai loro sherpa. Fin quando nell'autunno del 2008, nel pieno del semicollasso del sistema finanziario internazionale provocato al crollo di Lehman, George W. Bush, ormai in uscita dalla Casa Bianca, convocò a Washington non più ministri e governatori, ma capi di stato e di governo, per fare fronte unito contro la crisi più grave degli ultimi ottant'anni. In questa funzione d'emergenza, il G-20 ha funzionato: al vertice di Londra di aprile 2009 mise in atto una serie di misure decisive e mostrò che il mondo era pronto ad agire compatto contro il meltdown della finanza che si propagava all'economia. A Pittsburgh, un anno fa, si mettevano le basi per farne il pilastro della nuova governance mondiale.
Ma una volta superata la fase più acuta della crisi, gli interessi divergenti hanno provocato una caduta verticale della voglia di collaborare, in particolare attraverso uno strumento così pletorico (e con alcuni membri francamente improbabili, come l'Argentina) e in cui la discussione rischia spesso di diventare una lunga sequela di interventi, invece del confronto aperto del vecchio G-7.
A due anni dalla sua creazione, il nuovo G-20 è già vecchio, tanto che in più occasioni, come qui in Corea, i sette hanno ripreso a vedersi fra di loro. La prospettiva che il 2011, con la presidenza di turno francese sia del G-7 sia del G-20, avrebbe sepolto definitivamente il gruppo di quelli che un tempo si definivano "i sette grandi", appare meno imminente. Anzi, il Canada, che non si è mai rassegnato a passare da uno dei sette a uno dei tanti, starebbe cercando di mettere in piedi una formula che metta assieme il G-7 e i Bric. L'altra strada possibile passa dalla riforma del board del Fondo monetario che lo trasformi in un "gran consiglio" dell'economia mondiale. Al summit di Seul a novembre, il G-20 dovrà anzi tutto giustificare la propria esistenza.