Storia dell'articolo
Chiudi
Questo articolo è stato pubblicato il 28 ottobre 2010 alle ore 06:37.
di Orazio Carabini Sono da rottamare. No, sono preziose al punto da essere insostituibili. Quando si parla di fondazioni bancarie non esistono le mezze misure. E sono sempre al centro dell'attenzione. Anche oggi, alla Giornata del risparmio che si svolge a Roma, gli attesi interventi del ministro dell'Economia Giulio Tremonti, del governatore della Banca d'Italia Mario Draghi, del presidente dell'Abi Giuseppe Mussari e del presidente dell'Acri Giuseppe Guzzetti non potranno evitare di affrontare la questione del momento: quanto a lungo le fondazioni potranno svolgere la funzione di azionisti di riferimento delle banche? E ancora: le regole che ne disciplinano l'attività sono ancora valide o vanno aggiornate?
Da una parte, infatti, c'è chi sostiene che le fondazioni hanno fatto il loro tempo poiché l'attuazione delle norme di Basilea 3 le costringerà a diluire le partecipazioni nelle banche. Il flusso dei dividendi è destinato a inaridirsi e per le fondazioni sottoscrivere gli aumenti di capitale che potrebbero rendersi necessari per rispettare i parametri sarà più difficile. Non solo. Negli ultimi tempi quella "stabilità" e quella "lungimiranza" tanto apprezzate nelle fondazioni-azioniste hanno lasciato un po' a desiderare. Le recenti vicende di governance di Intesa Sanpaolo e di Unicredit hanno restituito alle cronache comportamenti dei gruppi dirigenti (non tutti per fortuna) abbastanza deprimenti, ispirati da logiche politiche poco consone alla buona gestione delle banche. La defenestrazione di Enrico Salza dalla presidenza del consiglio di gestione di Intesa Sanpaolo, la spaccatura nella Compagnia di San Paolo, gli scomposti interventi del sindaco di Torino Sergio Chiamparino avevano segnalato che la voglia delle fondazioni di riprendersi il potere e le luci della ribalta stava crescendo. Anche in Unicredit il licenziamento di Alessandro Profumo voluto dal fronte padano-tedesco delle fondazioni e dei consiglieri guidati dal presidente Dieter Rampl è stato gestito in modo maldestro. Si può ammettere che gli azionisti e il cda decidano di far fuori un manager perché non porta i risultati attesi o perché si muove in modo autoreferenziale, senza informare il board delle sue iniziative. Ma non è un bello spettacolo vedere che sindaci interventisti dettano il percorso, che il cda non si è preoccupato di trovargli un sostituto, che vengono scelti i dirigenti più vicini allo stesso Profumo (che cosa facevano prima? Remavano contro?), che il direttore generale viene nominato dopo un balletto estenuante (prima uno solo, poi due, poi ancora uno solo), che al reprobo Profumo viene concessa una liquidazione (40 milioni) senza precedenti e senza convincenti giustificazioni, come ha ben documentato Patrick Jenkins sul Financial Times di martedì.