Storia dell'articolo
Chiudi
Questo articolo è stato pubblicato il 29 ottobre 2010 alle ore 06:39.
Condannateli, dice il sostituto procuratore generale della Corte d'appello nel processo sul sequestro di Abu Omar, prima di cominciare a sgranare il rosario delle pene per gli ideatori, i promotori, gli esecutori e i complici di quella «extraordinary rendition», che il 17 febbraio 2003 portò l'ex imam di Milano in Egitto, dove fu torturato e sodomizzato. Sul banco degli imputati del processo, giunto in appello, siedono 23 agenti della Cia (tutti latitanti e ricercati) per i quali ieri l'accusa ha chiesto dagli 8 ai 12 anni di carcere, pene più severe di quelle decise in primo grado (da 5 a 8 anni) perché «non meritano le attenuanti generiche».
Ma su quel banco sono tornati anche Nicolò Pollari, l'ex direttore del Sismi (ora Aise), e il suo numero due Marco Mancini, usciti dal processo di primo grado con un proscioglimento grazie al «segreto di stato» opposto dai governi Prodi e Berlusconi: l'accusa ne ha chiesto la condanna a 12 e 10 anni di carcere, perché erano «totalmente consapevoli dell'attività criminosa» portata avanti dagli 007 americani e si sono fatti scudo di un segreto di stato «inesistente», evocato soltanto «per ottenere un'impunità».
«Non è vero», ha ribattuto Nicola Madia, difensore di Pollari. «Il generale ha sempre urlato la sua verità» e si è sempre comportato come «un servitore dello stato» negli anni in cui il terrorismo internazionale mieteva vittime a New York, Madrid e Londra. «Un generale sudamericano», ha osservato Luca Bauccio, avvocato di Nabila Hali, moglie dell'ex imam, paragonando il comportamento di Pollari a quello degli uomini «con gli occhi di ghiaccio che, dietro gli occhiali con le lenti scure, decidevano le sorti dei desaparecidos».
Il processo riprenderà giovedì prossimo, 4 novembre, per le arringhe degli altri difensori e poi la Corte d'appello si chiuderà in camera di consiglio per decidere. Una sentenza dai mille risvolti, anche politici, come dimostra l'intervento irrituale del ministro della giustizia Angelino Alfano che, con una lettera inviata anche alla Corte il 21 settembre, alla vigilia dell'appello, nel perorare la tesi della giurisdizione americana per uno degli imputati, il colonnello Joseph Romano, ha «auspicato» che, «in uno spirito di leale collaborazione», quella tesi potesse essere «condivisa» dai giudici.