Questo articolo è stato pubblicato il 31 ottobre 2010 alle ore 16:51.
Tra meno di novanta giorni, lo stato semi-autonomo del Sud Sudan potrebbe affrancarsi per sempre da Khartoum, votando per la propria indipendenza. Il referendum previsto del trattato di pace, che nel 2005 ha messo fine a ventidue anni di guerra civile tra il nord musulmano e il meridione cristiano-animista del più esteso paese africano, è previsto il 9 gennaio 2011. Nella stessa data, dovrebbero recarsi alle urne anche gli abitanti della regione petrolifera di Abyei, per decidere da quale parte stare.
Il venticinque ottobre scorso, l'ambasciatore sudanese alle Nazioni Unite, Daffa-Alla Elhag Ali Osman, ha messo in guardia la comunità internazionale sulle sorti di quest'area seduta sui enormi giacimenti di oro nero, che tanto Khartoum, quanto Juba intendono accalappiare: «In mancanza di un accordo preliminare tra le parti su Abyei, si rischia un ritorno alla guerra». Intanto, i leader di nord e sud, guardano al futuro come un punto all'infinito. Andando avanti come rette parallele, che non s'incontrano mai.
Il presidente sudanese, il generale Omar al-Bashir, è uno dei più celebri politici africani. Ribalta conquistata anche grazie a un primato mondiale: essere il primo Capo di Stato in carica a ricevere una condanna dalla Cpi dell'Aja per crimini di guerra e contro l'umanità, oltreché genocidio, commessi in Darfur. Nonostante la fedina penale insanguinata per gli eccidi nella regione occidentale del suo paese, grande quanto la Francia, al-Bashir non ha grossi problemi a viaggiare all'estero. Se si affacciano all'orizzonte, vengono risolti, secondo canoni istituzionale.
Solo pochi giorni fa, ad esempio, un vertice dell'Igad, Autorità intergovernativa per lo sviluppo (dei paesi del Corno d'Africa) sui confini sudanesi in vista del referendum, è stato spostato da Nairobi ad Addis Abeba. Un cambio di programma reso necessario per non bissare le polemiche seguite alla visita di al-Bashir nella capitale kenyota, l'estate scorsa. In quell'occasione ventitrè organizzazioni per la difesa dei diritti umani protestarono per la trasferta del generale sudanese, definendola un insulto al rispetto delle leggi internazionali. Principale partner commerciale del Sudan, dove in base all'articolo 149 del codice di procedura penale, lo stupro è equiparato all'adulterio, è un altro Stato che non va troppo per il sottile in quanto a diritti umani, la Cina.
Il volume di scambi tra Pechino e Khartoum è pari a 6,39 miliardi di dollari. Il Dragone ha fiutato da tempo le potenzialità africane. Risultando molto più apprezzato degli ex-colonizzatori. In occasione della visita in Sudan del presidente cinese Hu Jintao, tre anni fa, Pechino ha firmato prestiti senza interessi al regime di Khartoum e ha cancellato contemporaneamente milioni di dollari di debito del Paese africano. Il know-how cinese è alla base dell'ammodernamento del Sudan, ben visibile nella capitale, che negli ultimi dieci anni ha cambiato i connotati dello sky-line.
L'occasione cinese è stata colta anche grazie alle punizioni occidentali. La tigre è stata cavalcata quando finanziamenti di Banca Mondiale e Fondo Monetario Internazionale sono saltati, per cause riconducibili al terrorismo internazionale.
E oggi, nessuno pare avere la puzza sotto il naso, quando si tratta di fare affari col Sudan dell'incriminato al-Bashir. Il Brasile di Lula, per esempio, ha firmato accordi per 500 milioni di dollari nel settore agricolo. La cooperativa rossa di Ravenna ha vinto, nel 2008, l'appalto per la costruzione dell'Hotel di lusso Burj al-Fateh, di Khartoum, la vela che si rifà allo stile di un'altro "fiore del deserto" cresciuto in fretta e furia, Dubai. Persino chi ha dato addosso con veemenza al Generale, quando è scattato il mandato di cattura della Cpi, cambia tono. Mettendosi in fila, per una fetta di torta.
Poche settimane fa, una delegazione commerciale sudanese è stata accolta con tutti gli onori a Londra. Per l'occasione, il governo Cameron, ha annunciato l'inizio di una «nuova epoca» nelle relazioni economiche tra Gran Bretagna e Sudan. Dove sono ancora in vigore sanzioni economiche Usa. Nonostante le posizioni ufficiali di Washington sul Darfur, proprio l'intelligence a stelle e strisce vede al-Bashir come una pedina utile per arginare al-Qaeda in Somalia e Yemen. In contropartita, il presidente sudanese otterrebbe la cancellazione delle punizioni (quelle di tipo pecuniario, delle altre, semplicemente, se ne infischia).
Molto meno noto di al-Bashir, suona il nome di Salva Kir, attuale presidente dello Stato semi-autonomo del Sud e capo del Sudan Peoples Liberation Movement – Splm (braccio politico dell'Spla) a chi non è avvezzo a questioni africane. Kir è il successore del leader storico della ribellione al governo musulmano del nord, guidata, durante la guerra, dal dottor John Garang. Di etnia dinka come Kir, Garang rimase ucciso in un incidente aereo nel 2005, quando era vice-presidente sudanese. All'epoca si temette un ritorno alla guerra. Sia Khartoum, che il sud furono sconvolti da scontri, con morti a decine. Un'inchiesta avrebbe in seguito stabilito che l'incidente occorso all'elicottero su cui si è schiantato Garang, non era di origine dolosa. Ma per molti, in Sud Sudan, ancora oggi, non si sono dissipate le ombre sulla vicenda.
Nonostante un ruolo internazionale apparentemente di secondo piano, prima ancora di diventare presidente di uno Stato indipendente, Salva Kir, preoccupa personaggi del calibro di Muhammar Gheddafi. Durante un recente vertice della Lega araba a Sirte, in Libia, il colonnello libico ha definito «pericoloso e contagioso» per il continente africano, un esito separatista del referendum sudanese. A turbare i sonni di Gheddafi, è il nuovo corso che Salva Kir intende far intraprendere al Sud Sudan. «In caso di secessione dal resto del Sudan, non è escluso che possano nascere ottimi rapporti diplomatici con Israele e che nella nostra capitale, Juba, ci possa essere una loro ambasciata. Lo stato ebraico è considerato come un nemico solo dai paesi arabi e in particolare dai palestinesi mentre non è un nostro nemico. Se vinceranno i sì al referendum disegneremo una nuova politica estera del nostro nuovo stato», ha dichiarato pochi giorni fa Kir. Una Juba indipendente, si collocherebbe nella sfera di alleanze allargate strategiche della Nato. In cui rientrano altri paesi africani come Uganda, Etiopia e Ruanda. Alleati chiave di Washington.
Su tale complicato intreccio geopolitico, in cui gli interessi economici vengono prima di tutto, incombe ora l'incognita per la tenuta della pace, in caso di separazione tra nord e sud. Lo stesso al-Bashir si è contraddetto sulla questione, affermando da una parte di rispettare l'esito del referendum, dall'altra, che non intende accettare «nessuna altra opzione rispetto all'unità» del paese. Lo stesso Splm, è spaccato. Gli appartenenti al movimento del nord non vogliono separarsi dal sud. Del resto sanno bene che da quando è diventato presidente del Sudan con un colpo di Stato nel 1989, Omar al-Bashir, si è occupato di ripulire etnicamente le componenti non islamiche del paese. Il Darfur è l'esempio più evidente di tale politica. Come però mostra l'utilizzo di munizioni non solo degli amici cinesi, ma anche Made in Israel, per i massacri compiuti in Darfur (lo dice un rapporto Onu, i diretti interessati negano), in Sudan come altrove, si ritorna al concetto di base: business is business.
Proprio per questo, è prevedibile che il nuovo corso di un Sud Sudan indipendente, non sia preso con filosofia da colossi come la China National Petroleum Company. Ovvero dalla Cina. Un tempo, prima che arrivassero gli asiatici, le concessioni per l'estrazione del petrolio a sud del Sudan le avevano altri. Per esempio la statunitense Chevron. Se Salva Kir inaugurasse, un giorno, l'ambasciata israeliana a Juba, a chissà a chi potrebbero andare nuove concessioni.