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Senza rinunce i rischi salgono

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Questo articolo è stato pubblicato il 03 novembre 2010 alle ore 06:37.


MILANO
«Diciamo la verità: siamo tutti bravi a parlare di dissesto del territorio, ma appena abbiamo la possibilità non rinunciamo ad allargare casa, anche al di sopra delle nostre esigenze, e soprattutto senza curarci delle possibili conseguenze».
Fausto Guzzetti, direttore dell'Istituto di ricerca per la protezione idrogeologica del Cnr (Irpi) si occupa da trent'anni di frane e allagamenti. Con il progetto Iffi (Inventario dei fenomeni franosi in Italia) ha mappato insieme alle Regioni tutto il territorio italiano censendo mezzo milione di frane attive.
La sensazione è che bastano poche ore di pioggia intensa e il territorio italiano si sbriciola. È così o è solo un effetto mediatico?
Bisogna chiarire un paio di cose: è del tutto naturale che quando piove si verifichino frane e allagamenti. Gran parte del nostro territorio è scolpito da questi fenomeni naturali che, da quanto ci dicono i metereologi, nell'area mediterranea sono destinati a diventare più frequenti. La preoccupazione nasce dall'impatto sulle persone. Dai nostri studi, le calamità naturali che hanno creato danni diretti alla popolazione non sono più numerosi che in passato. Ma poiché il territorio oggi è più affollato e gli elementi antropici sono più numerosi, più pesanti e più ingombranti, il costo sociale ed economico che ne deriva è decisamente maggiore.
Cosa si può e si deve fare e quante risorse servono?
Nessuno ha la bacchetta magica: abbiamo impiegato settant'anni per metterci nei pasticci, ora avremo bisogno almeno di qualche decennio per risistemare il territorio. Posto che la nostra, come la medicina, non è una scienza esatta, dobbiamo prima di tutto aumentare la capacità di prevedere frane e allagamenti. Perciò abbiamo messo a punto per la Protezione civile il prototipo di un sistema di previsione delle frane basato sulla correlazione tra quantità di pioggia, tempo in cui è caduta ed eventi franosi. Questi dati vengono incrociati con quelli dei 2mila pluviometri sparsi sul territorio e con le previsioni quantitative di pioggia.

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Ma siamo ancora alla «sicurezza passiva», direbbero gli esperti di automobili.
Infatti. Con approccio epidemiologico, bisogna prevenire il più possibile, curare dove non se ne può fare a meno e avere il coraggio di abbandonare alcune aree troppo costose da difendere. Questo è possibile solo con una programmazione territoriale seria e consapevole, basata sulla conoscenza del territorio. Se serve, anche con interventi legislativi. Inoltre, stiamo lavorando per definire in modo semplice e intuitivo le condizioni di rischio: chiunque deve essere nelle condizioni di sapere quali sono i «rischi involontari» che comporta una certa area. Molte di queste informazioni sono già disponibili sul nostro sito (www.maps.irpi.cnr.it, ndr). Ma è necessario un cambio culturale.
In che senso?
Tempo fa ci è arrivata una mail da una signora australiana che voleva acquistare un casale in paesino della Toscana. Avendo visto che proprio in quella zona segnalavamo una frana , ci chiedeva un parere. Creare questa sensibilità negli amministratori e nei cittadini avrebbe effetti eccezionali.
Quanti soldi servirebbero per la prevenzione?
Da geologo faccio fatica a fare cifre. Certo è che i tempi sono lunghi e questo è un ostacolo in più perché difficilmente un politico investe su un fronte i cui benefici sono a lungo termine e ininfluenti sulle scadenze elettorali. Studi americani e francesi ci dicono però che spendere per mitigare i rischi naturali in momenti di crisi economica costa meno ed è più sostenibile.
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