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Questo articolo è stato pubblicato il 04 novembre 2010 alle ore 09:15.
L'ultima modifica è del 04 novembre 2010 alle ore 09:03.
Qual è la peggior sconfitta per Obama nel voto di midterm?
In uno degli ultimi comizi, rivolgendosi agli elettori ispanici impauriti dalla campagna contro l'immigrazione, il presidente Obama ha chiesto di «Non votare per il nemico». Nel suo libro «L'audacia della speranza», nei discorsi, correndo per la Casa Bianca, Obama aveva invocato una politica post-ideologica, che suturasse la frattura tra partiti che tanto aveva avvelenato Washington con Clinton e Bush figlio. Ha fallito. Per non finire sommerso dalla marea dei populisti Tea Party e degli elettori indipendenti preoccupati dall'economia, Obama ha perduto la sua filosofia. Vinca o no le elezioni presidenziali del 2012, la nobile crociata per un'intesa nazionale sui valori, contro gli slogan rabbiosi, è caduta vittima di web ostile, talk show rabbiosi radio e tv.
Perché Obama, dopo aver affascinato il mondo, ha perduto così brutalmente?
Perché ha dimenticato le ragioni della vittoria 2008. Ai primi di settembre, vigilia della caduta di Lehman Brothers, i sondaggi davano Obama davanti al rivale repubblicano McCain, ma non di troppo. Solo la tempesta finanziaria persuade l'elettorato scettico a votare per il giovane senatore afroamericano. McCain dice «i fondamentali della nostra economia sono solidi», il buon senso Usa intuisce che è uomo d'altri tempi e si affida ai democratici.
Eletto per risanare l'economia, Obama sceglie invece collaboratori troppo cerebrali, il pallido ministro Geithner, l'arrogante consigliere Summers, a loro agio con gli algoritmi dei centri studi, ma insopportabili a «Peoria, Illinois», città simbolo degli americani qualunque. Là vive gente che ha pur capito la necessità di salvare banche e istituti finanziari, pompare fondi nell'economia moribonda, tenere il dollaro basso per fare braccio di ferro valutario con Pechino, ma si chiede infine: e i nostri posti di lavoro? Obama in giro per il mondo a parlare di buone intenzioni, cambiando piani e generali su Kabul e Baghdad, ha deluso chi lo voleva impegnato a creare quel lavoro che la ripresa, anche quando fa timido capolino, non sa più generare per le aziende e i disoccupati.
È dunque finito il sogno di Obama?
Il sogno sì. Potrebbe però cominciare la realtà di Obama. Può svoltare al centro come Clinton nel 1994: battuto a midterm da Gingrich e ispirato dal consigliere moderato Morris, riuscì a tenere duro sul welfare, creò con il segretario Rubin una decina di milioni di posti di lavoro (malgrado il guru Rifkin gufasse di «Morte del lavoro») e rivinse facilmente la Casa Bianca 1996 contro Dole. Oppure può, rischiando, galvanizzare le basi di minoranze etniche ed elettori tradizionali democratici, sperando che la rivolta dei Tea Party confusionari spaventi moderati e indipendenti. Strada sdrucciolevole per chi voleva unire l'America.