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L'ultima sfida della superdirettrice Tina Brown è risuscitare il malandato Newsweek

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Questo articolo è stato pubblicato il 12 novembre 2010 alle ore 20:03.

Nel 1993 Elizabeth Kolberth scrisse sul New York Times Magazine che nell'anagramma del nome era nascosto il destino di Tina Brown: "born to win" o meglio "borna ta win". Mai profezia fu più vera per la giornalista newyorker di origini londinesi, diventata famosa in tutto il mondo per la capacità quasi divina di trasformare fogli di carta in riviste cult.

Per l'ultima avventura, iniziata ufficialmente ieri «brindando con una tazzona di caffè», SuperTina si farà aiutare dalla sua creatura online: The Daily Beast, il sito lanciato nel novembre del 2008 che, con 5 milioni di visitatori al mese, è uscito dai confini dell'informazione per diventare in moltissimi casi - da Obama alla lotta allo strapotere di Wall Street - un movimento culturale.

La prossima sfida è resuscitare il malandato Newsweek, comprato lo scorso anno per un simbolico dollaro dal milionario 91enne Sidney Harman. La nuova gestione per il momento è riuscita a portare le perdite della rivista dai 30 milioni del 2009 ai 20 di quest'anno ma, evidentemente, i lunghi processi di ripresa sono troppo anche per un miliardario come Harman. Così, complice forse la moglie Jane, deputata democratica della California, la scelta è caduta sulla donna che divide con Arianna Huffington lo scettro di guru liberal d'America.

Tina Brown diventerà direttore di Newsweek senza perdere la sua creatura online. Nella "The Newsweek Daily Beast Company" posseduta al cinquanta percento da Sidney Harman e Barry Diller (principale finanziatore del Daily Beast) convivranno, infatti, il magazine settimanale (con i suoi 350 dipendenti) e il sito 24 hours. «Vedo l'unione tra le due testate come un matrimonio tra la profondità giornalistica di Newsweek e la versatilità che è riuscita a portare su internet il Daily Beast: il metabolismo veloce del sito aiuterà la rinascita di Newsweek, aumentando la gamma di talenti che lavorano al suo interno e il suo pubblico. I due insieme offrono giornalisti, fotografi e operatori di marketing di grande qualità», ha scritto nel comunicato ufficiale la 57enne ex direttrice del New Yorker, che ha ringraziato online il suo nuovo editore per la «curiosità culturale» che è l'ingrediente fondamentale «per avere successo nell'editoria».

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Tags Correlati: Barry Diller | David Bailey | Elizabeth Kolbert | Elizabeth Kolberth | Helmut Newton | Sidney Harman | Società dell'informazione | Stati Uniti d'America | The Newsweek Daily Beast Company | Tina Brown | Wall Street

 

Il tocco da re Mida della carta stampata comincia per SuperTina con il moribondo Tatler che diventa in pochissimi numeri una rivista patinata ammessa nei salotti delle elites d'Inghilterra. Il mix vincente di ammiccamento modaiolo (le copertine del Tatler erano firmate Helmut Newton e David Bailey); cultura alta (grazie all'entourage Brown di scrittori e opinionisti) e cultura popolare (il mondo della principessa Diana diventa un argomento cruciale per la rivista) consente al Tatler di quadruplicare in due anni le vendite e a Tina Brown di diventare il salvacondotto biondo per il mondo editoriale. Così la direttrice trentenne si trasferisce a Manhattan per guidare Vanity Fair, che passa dalle duecento mila copie vendute del 1984 ai due milioni del 1992, anno in cui Brown lascia il fiore all'occhiello della Condè Nast per diventare il quarto direttore (primo donna) del New Yorker. Il magazine diventerà con lei non solo più venduto (+145%) ma più fresco e interessante.

Chi non cambia è Tina: anche alla guida della testata più snob d'America resta Mrs Brown resta la «bionda, affascinante e ambiziosa ragazza londinese» (come la definì Elizabeth Kolbert) convinta che la fortuna di un giornale dipende dalla presenza in ogni articolo di almeno «tre cose di cui le persone possono discutere durante un party». Il 2008 è l'anno del grande debutto in rete. Il suo Daily Beast dimostra fin dall'inizio che si può fare ottimo giornalismo su internet. La sfida oggi è capire se, oltre al giornalismo, la rete può salvare anche i giornali. Noi restiamo fiduciosi in quel mantra: Borna ta win.

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