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Questo articolo è stato pubblicato il 15 novembre 2010 alle ore 19:03.
La storia di Stefano Cucchi «ha messo in luce anche l'irrisolta questione del sovraffollamento del sistema carcerario e delle drammatiche condizioni in cui vivono i detenuti». Lo ha detto il presidente della Camera, Gianfranco Fini, alla presentazione del libro "Vorrei dirti che non eri solo", la storia del giovane morto dopo i maltrattamenti in carcere, scritta dalla sorella Ilaria e dal giornalista Giovanni Bianconi. «Non si può tacere, con amara constatazione - ha aggiunto Fini - che quello relativo ai diritti dei detenuti è un problema che riguarda non solo l'Italia, che comunque sconta una pesante penuria di organico impegnato nelle carceri».
Ma la terza carica dello stato ha posto l'accento anche su un altro tema, «il dubbio terribile che talvolta chi rappresenta lo Stato non metta in atto nei confronti dei detenuti quei sistemi di garanzia che costituiscono un elemento fondamentale di ogni democrazia. Personalmente - ha concluso Fini - ritengo che chiunque, italiano o straniero, si trovi a essere in custodia dello Statodebba poter contare con certezza che i suoi diritti siano pienamente tutelati».
Il processo in corso per la morte per maltrattamenti in carcere di Stefano Cucchi «dovrà stabilire come sono andati i fatti e accertare le responsabilità - ha proseguito Fini - Dobbiamo confidare nella magistratura per ristabilire giustizia e per evitare che vi possano essere delle macchie che infanghino i leali servitori dello Stato, che sono la stragrande maggioranza».
«Un pericoloso processo di estraniazione emotiva sta minando la società - ha proseguito Fini - distruggendo un comune senso di appartenenza; un'atonia morale che si trasforma in egoismo e indifferenza verso gli altri, la loro dignità, la loro stessa esistenza».
Quella di Ilaria Cucchi è stata una «battaglia» che si è trasformata in «fiducia nella giustizia e nella verità. Perché - conclude il presidente della Camera - senza giustizia non c'è libertà, né democrazia la cui forza sta proprio nella capacità di riconoscere le proprie zone d'ombra e di illuminarle».